La Marca (Pd): riaffermare vocazione euroatlantica scelta attuale

Fermezza sui diritti umani ma autonomia Italia per allentare tensioni

APR 12, 2021 -

Roma, 12 apr. (askanews) – Tra le caratteristiche rivendicate da Mario Draghi nelle sue dichiarazioni programmatiche da presidente del Consiglio ci sono i legami storici con l’atlantismo e l’europeismo. Su questo tema abbiamo intervistato alcuni parlamentari eletti nella circoscrizione Estero. Ecco cosa ci ha detto Francesca La Marca, deputata del Partito democratico eletta all’estero nella ripartizione America settentrionale e centrale.

D. Dopo le tensioni negli anni di Trump ci sono segnali di un riavvicinamento, come la partecipazione del presidente Joe Biden al Consiglio europeo. Cosa serve per rilanciare la collaborazione fra le due sponde dell’Atlantico?

R. La riaffermazione della vocazione euroatlantica dell’Italia e la sua scelta europeistica non sono solo giusti richiami storici, ma opzioni politiche quantomai attuali, anzi necessarie rispetto alla formazione di una maggioranza molto eterogenea, comprendente anche forze che nel recente passato non hanno dato prova di convinzioni tetragone a questo riguardo. Appena tre anni fa si formava un governo che considerava l’Europa un obiettivo polemico per le tendenze ad assorbire poteri degli Stati nazionali e per il freno che imponeva alle politiche di sviluppo. Se poi si è registrata una positiva evoluzione del Movimento 5Stelle verso un più maturo spirito europeistico, lo stesso non è accaduto per la Lega, il partito maggioritario secondo i sondaggi, che non ha rinunciato a tentazioni sovraniste. Draghi, dunque, ha fatto bene a delimitare l’ambito culturale e politico di questo governo e bisogna dargli atto che ha saputo cogliere con tempismo il passaggio di fase legato alla sconfitta di Trump e all’avvento di un nuovo interlocutore, come Biden, portatore di una visione più aperta al dialogo con l’Europa. Il rilancio della collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico, comunque, non è frutto solo di scelte strategiche, ma nasce dalle cose. Il primo fattore di spinta, come insegna la vicenda di quest’ultimo anno, è la necessità di unire le forze e le risorse contro il terribile rischio pandemico, presente e futuro. Il secondo, la necessità di trovare un equilibrio tra sviluppo e compatibilità ecologiche. Sappiamo i danni che ha fatto Trump e la diversa posizione di Biden a questo riguardo. Un altro fattore di dialogo sta nella necessità per gli USA di trovare un sostegno nella dialettica anticinese e antiputiana che la nuova amministrazione ha lanciato. Questo lascia sperare che anche sul delicato terreno dell’interscambio commerciale, tra gli Usa e l’Europa alla fine si debba cercare un ragionevole compromesso.

D. Sui vaccini, almeno finora, l’aiuto dagli Stati Uniti all’Europa tarda ad arrivare. Per quali ragioni, a suo giudizio?

R. Sui vaccini finora c’è stata una disperata corsa di ogni Paese a tutelare prima di ogni altra cosa i propri cittadini, una specie di lotta per la sopravvivenza, dal cui esito, per altro, dipendeva anche la speranza di contenere i danni disastrosi all’economia e la possibilità di limitare il ricorso alle ingenti risorse finanziarie da impegnare per le tutele sociali. Naturalmente, sono state avvantaggiate le realtà più strutturate sotto il profilo della ricerca e più dotate della capacità di investimento nell’utilizzazione dei suoi risultati. Il resto lo ha fatto il sistema dell’esclusività dei brevetti, che cristallizzano i rapporti di forza, un sistema sul quale, di fronte alla dimensione globale della minaccia pandemica, sarà giusto tornare a riflettere, non appena sarà possibile. Non bisogna dimenticare, poi, che la vaccinazione di massa è stato uno dei temi forti della campagna elettorale americana e ognuno dei candidati ha mosso potenti gruppi di potere per potere acquisire la disponibilità delle maggiori imprese farmaceutiche. E’ dunque ingenuo attendersi le grazie degli altri per risolvere i propri problemi. Biden ha promesso ai rappresentanti europei che cercherà di dare una mano, e probabilmente nei limiti del possibile lo farà, ma intanto l’Europa e ogni stato al suo interno facciano ogni sforzo per aiutarsi da soli, aumentando gli investimenti in ricerca, facendo accordi di partenariato per produrre in loco su concessione di brevetti esteri e accelerando la produzione dei vaccini fatti in casa.

D. Il presidente Biden ha lanciato, con il voto favorevole del Congresso, un gigantesco piano di aiuti economici per la ripresa dopo la pandemia, circa il doppio rispetto all’impegno progettato dall’Unione europea. In Europa ci sono voci autorevoli che chiedono di accelerare e rafforzare l’intervento finanziario coordinato da Bruxelles: la svolta di Washington potrà influenzare positivamente Bruxelles?

R. Non ci voleva la pandemia per scoprire il potenziale di fuoco statunitense sul piano finanziario. Rispetto all’Europa, inoltre, gli Stati Uniti possono godere di un sistema istituzionale molto più semplice e diretto sul piano decisionale, sicché credo che una comparazione quantitativa non ci porterebbe lontano. D’altro canto, con tutte le difficoltà che si sono dovute superare con i cosiddetti “paesi frugali” e con alcune lobby finanziarie tedesche, non sottovaluterei lo sforzo finanziario e progettuale compiuto dall’Europa in questa occasione. Tanto più che si sono potuti acquisire elementi di principio del tutto nuovi, quello dell’assunzione di responsabilità finanziare anche collettive e della comune solidarietà verso i paesi più colpiti, ad iniziare dall’Italia, che non sono stati lasciati soli. Questo non toglie che una volta avviati i progetti adottati e messo a terra il Recovery Plan si possa lavorare anche ad un rafforzamento degli impegni assunti. La cosa che però non sottovaluterei è la distinzione qualitativa tra le due impostazioni di intervento. Quello americano tende soprattutto a riattivare le forze vitali dell’economia fiaccate dalla pandemia, quello europeo è esplicitamente finalizzato a un cambiamento profondo sul piano ecologico, digitale e sociale in vista di una nuova Europa, capace di rispondere meglio di quanto sia oggi in grado di fare, alle sfide ambientali, tecnologiche e del lavoro da cui dipenderà la qualità del nostro futuro.

D. Tra i grandi temi all’attenzione della nuova amministrazione statunitense ci sono quelli del rapporto per certi aspetti conflittuale con la Russia e la Cina. Paesi con i quali l’Europa – e la Germania che ha un ruolo centrale nell’Unione – hanno ragioni di contrasto ma anche intensi rapporti commerciali. Che ruolo può svolgere l’Italia in questo scenario?

R. Questo è certamente uno dei temi più complessi dell’agenda dell’Amministrazione americana, che è partita con toni molto alti nei confronti di Putin e della Cina. Alimentando tendenzialmente una duplice contraddizione, quella di determinare una saldatura anti occidentale tra Cina e Russia e quella di coinvolgere anche gli alleati europei, che hanno interessi di varia natura verso gli interlocutori orientali, in una pesante contesa sull’egemonia mondiale. La situazione è molto complessa e, quindi, non ci sono ricette a portata di mano. Credo che l’Italia, in stretto raccordo con l’UE, non debba avere incertezze nella rivendicazione del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche, parecchio sacrificati sia dalla Cina che dalla Russia. Allo stesso tempo deve avere un atteggiamento di fermezza, in dialogo con gli USA, sulla pretesa di queste potenze autoritarie di penetrare in scacchieri di diretta sensibilità, come, ad esempio, il Mediterraneo e la Libia. Poi, è giusto che in una fase come questa, il nostro Paese, strutturalmente proiettato nel mercato internazionale, pur confermandosi alleato fedele degli USA, non si dimostri tuttavia succube e faccia il suo gioco sul piano commerciale e culturale. La capacità di interpretare con senso di autonomia anche una forte alleanza può contribuire ad allentare le tensioni internazionali e a favorire un accettabile equilibrio tra le maggiori forze in campo.