Somalia, Marincola: ora parlare con al Shabaab

Ieri insediamento nuovo presidente Mohamud

MAG 24, 2022 -

Somalia Roma, 24 mag. (askanews) – Mogadiscio. Si è insediato ieri, lunedì 23 maggio, il nuovo presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, eletto il 15 maggio scorso. Già capo di Stato tra il 2012 e il 2017, Sheikh Mohamud ha sconfitto il capo di Stato uscente, Mohamed Abdullahi Mohamed, noto come Farmajo. Antar Mohamed Marincola, scrittore italo-somalo nato a Mogadiscio, vive in Italia dal 1983 ed è il nipote del partigiano Giorgio Marincola. Guardando al risultato elettorale rimane scettico su un possibile cambio di rotta del paese africano, ormai in guerra da oltre 32 anni. Il cambiamento è possibile, secondo lo scrittore, solo aprendo un dialogo con le nuove generazioni. Anche con gli al Shabaab, dice Marincola alla giornalista Marzia Coronati , “bisogna trattare, bisogna parlare”. Partiamo da un aggiornamento su una vicenda insolita avvenuta a Roma. Nella notte del 6 aprile scorso Ahmed Adbirahman Sheikh Nur, designato come futuro ambasciatore somalo in Italia dal presidente uscente Farmajo, aveva fatto irruzione nella sede diplomatica romana di via dei Gracchi e si era barricato al suo interno, lasciando fuori il vecchio ambasciatore Mohamed Abdirahman Sheik Issa (qui la storia nel dettaglio). Concluse le elezioni e cambiato il presidente, oggi sembra in via di risoluzione anche il caso della lite tra gli ambasciatori: il neo presidente ha chiamato in patria tutti i diplomatici indicati dal suo predecessore sconfitto e adesso l’occupante dovrà andarsene, ricedendo il posto al vecchio ambasciatore. La vicenda romana, commenta Antar Marincola, spiega molto del clima turbolento che si respira nel paese africano, dove le recenti elezioni si sono tenute con una serie di difficoltà e tra le molte preoccupazioni per eventuali attacchi di al Shabaab. Il problema è quello della rappresentatività. Non è facile rappresentare un paese grande due volte l’Italia, di seicentocinquantamila chilometri quadrati, che è in guerra da 32 anni. Un paese culturalmente nomadico, dove non ci sono strade, ci sono pochi porti, non ci sono vene comunicative che permettono alla rappresentanza politica di fare un discorso di pacificazione. Il presidente attuale rappresenta solo Mogadiscio, come accadeva ai tempi di Siad Barre. I due presidenti però, l’attuale e l’uscente, appartengono a due etnie differenti e sono perciò rappresentativi di diverse fasce di popolazione. Credi che il nuovo governo sarà capace di gettare le basi per la costruzione di un futuro diverso? Esiste una frattura tra generazioni, i padri non sono riusciti a dimostrare ai figli che si può convivere in pace. Gli al Shabaab (ndr che in arabo significa i giovani) sono il frutto dei 32 anni di guerra civile e se noi ancora adesso, come è accaduto nelle ultime elezioni, partiamo dal presupposto di doverli combattere, equivale a parlare di una guerra familiare. Come bisognerebbe affrontare la questione degli al Shabaab dunque? Non bisogna combatterli, bisogna trattare, bisogna parlare. Gli al Shabaab sono il prodotto del disagio creato dal nostro paese, non possono essere combattuti all’interno della logica della guerra al terrorismo. Sarebbe come fare la guerra ai nostri figli. Noi come padri cosa abbiamo lasciato se non la guerra? I politici somali, le persone al governo, hanno passaporti che pesano, sono libere di viaggiare, gli al Shabaab rappresentano una vita interna, vivono lì, le loro istanze chi le ascolta? Loro però vogliono il califfato… Ma il califfato è una menzogna in un contesto di miseria, in un paese bloccato da 32 anni di guerra civile. I contadini non producono più la terra, chi continuerebbe a coltivare quando le persone intorno abbracciano le armi? Quando quello che viene coltivato è immediatamente sequestrato? Perché fare la guerra ai giovani, quando sono loro l’espressione del disagio? Perché non parlare con loro? Non dialogare sulle istanze? Perché non pensare che un ambulatorio, una scuola, una strada in più possa ancsare a prosciugare la disperazione che vivono i ragazzi. Io credo che le elezioni politiche in Somalia siano false, in termini di rappresentatività. Non rappresentano le istanze di questi giovani, né delle loro madri. Oggi i politici non ascoltano e non dialogano, rimangono in silenzio, un silenzio rotto solo dalle bombe. Hassan Sheikh Mohamud, il presidente entrante, ha un curriculum di rispetto, è un attivista pacifista e un professore, tra i fondatori di una delle più importanti università della Somalia. Ma ancora una volta questo presidente non rappresenta nessuno, se non sè stesso. Fino a che non si apre un dialogo con le realtà che abitano il conflitto da lungo tempo, non si andrà da nessuna parte. Quando è scoppiata la guerra in Somalia si parlava della libanizzazione della Somalia, quando è scoppiato il conflitto in Libia si parlava di somalizzazione della Libia, noi pensiamo di poter tenere separate le cose ma non è così, in futuro si potrebbe parlare di ucrainizzazione dell’Italia, se continuiamo ad assecondare la logica del fuoco che cammina. O spegniamo il fuoco oppure il fuoco verrà verso le nostre case. Giorgio, mio zio, combatteva con gli angloamericani, mio nonno combatteva con i fascisti: sono le conseguenze di un conflitto che non viene sanato.