Sahel, Gaida (Ara Pacis): Mali rischia di diventare regno dei jihadisti

Colloquio con presidente onlus che da anni media in Libia e in Mali

MAG 5, 2022 -

Sahel Roma, 5 mag. (askanews) – “Il Mali, paese strategico nel Sahel, rischia di diventare il regno dei jihadisti”, se si arrivasse al totale disimpegno europeo nella lotta al terrorismo a causa della rottura in atto tra Bamako e Parigi. Questo il monito lanciato da Maria Nicoletta Gaida, presidente della onlus Ara Pacis che negli ultimi anni ha favorito prima la riconciliazione tra gruppi armati e comunità del nord del Mali, poi il loro accordo con il governo di Bamako, lo scorso febbraio, per dare attuazione all’Accordo di pace di Algeri, firmato nel 2015 e mai di fatto implementato. Un’azione di mediazione che non piace a Parigi e che oggi è minacciata dalla nuova offensiva lanciata dai jihadisti dello Stato Islamico nel Grande Sahara (Eigs) nella cosiddetta regione dei tre confini (Mali, Niger, Burkina Faso), subito dopo l’annunciato disimpegno militare francese ed europeo. Un’offensiva che ha già causato centinaia di morti lungo quella che da anni l’Unione europea definisce la “nostra frontiera meridionale”, e che oggi è contrastata solo dalle forze locali e da quegli stessi movimenti armati che lo scorso febbraio hanno avviato a Roma un percorso con il governo di Bamako per riportare la pace nel paese. IL MALI RISCHIA DI DIVENTARE IL REGNO DEI JIHADISTI “Se si abbandona il Mali, se non ci sarà più nessuno a fare argine ai jihadisti, diventerà il loro regno, con il rischio di destabilizzare l’intero Sahel e di farli arrivare in Libia”: questo il timore espresso da Gaida in un colloquio avuto con askanews sulla mediazione portata avanti negli ultimi anni prima in Libia, quindi in Mali. Proprio alla luce dei rapporti costruiti nel corso di questo processo, “non solo con i gruppi armati, ma con le comunità, con i leader religiosi” del nord del Mali per favorirne la coesione e avviare l’implementazione dell’Accordo di pace di Algeri, secondo la presidente di Ara Pacis l’Italia avrebbe oggi tutto l’interesse per “proporsi come mediatore tra Mali e Unione europea” per scongiurare che tale scenario si concretizzi, con evidenti ripercussioni lungo le rotte saheliane che arrivano poi in Libia. Anche perché dopo la firma dell’Accordo di principio di Roma dello scorso febbraio tra governo di Bamako e i movimenti armati del nord del Mali, Gaida è tornata a Bamako per portare avanti il dialogo e concretizzare il Quadro strategico permanente per la riconciliazione, la sicurezza e lo sviluppo tra le parti, anche alla luce della drammatica crisi umanitaria in atto da anni a causa dell’insicurezza, aggravata da condizioni di estrema povertà, quindi dalla pandemia di Covid-19 e dagli effetti della crisi climatica. FRANCIA INFASTIDITA DALLA MEDIAZIONE ITALIANA La mediazione di Ara Pacis non piace però a Parigi, come emerso chiaramente dalle dichiarazioni rilasciate dall’ex ambasciatore francese a Bamako, Nicolas Normand, il giorno stesso in cui veniva firmato l’Accordo di principio di Roma (“Bamako dovrebbe forse espellere l’ambasciatore d’Italia piuttosto che espellere l’Ambasciatore di Francia”) e dalla stampa francese, che ha definito Ara Pacis “associazione vicina allo Stato e ai servizi italiani”, per poi bollare di recente come “torbida” la diplomazia italiana (Le Monde). Accuse respinte da Gaida, che ad askanews ha sottolineato la necessità di “un coordinamento” con le autorità italiane quando si lavora in zone di crisi come il Mali e la Libia, così come la volontà di sostenere un processo di riconciliazione sollecitato dalle stesse comunità locali alla luce del lavoro che Ara Pacis porta avanti dal 2013 in Libia, in particolare nella regione meridionale del Fezzan. “Non esiste alcuna agenda segreta”, ha puntualizzato. TUTTO NASCE DAL FEZZAN I contatti con il Mali nascono dalla Libia, dove Ara Pacis inizia a operare poco dopo la morte di Muammar Gheddafi, “per capire se le nostre iniziative potevano risultare utili in quel territorio lacerato” dal recente conflitto e successivamente dalle violenze commesse ai danni dei migranti che arrivavano in Libia lungo le rotte saheliane. “Abbiamo capito che bisognava lavorare con le tribù che vivono nella regione e favorire la pace tra di loro, per questo abbiamo cominciato ad invitare a Roma tutte le principali personalità del Fezzan e abbiamo ascoltato”, ha raccontato Gaida. Un ascolto andato avanti mesi e che ha permesso di far sedere a uno stesso tavolo nel 2017, a Roma, le comunità Tebu e degli Awlad Suleyman per firmare un accordo di pace e riconciliazione alla presenza dei leader Tuareg dopo anni di scontri, e centinaia di morti, per il controllo delle rotte transfrontaliere. Un’intesa seguita poi da un dialogo costante, che ha portato le due parti a “rinunciare a ogni forma di risarcimento in cambio di progetti di sviluppo per le comunità, in modo che potessero lavorare insieme e rafforzare così la pace”. IL PASTIFICIO DI SEBHA E IL CONSIGLIO DEL FEZZAN E’ nato così il “progetto simbolo” di questo percorso, il pasticifio di Sebha che “l’Italia sta ristrutturando attraverso la Cooperazione internazionale, con il Ciheam di Bari”, ha raccontato Gaida. Si tratta di una fabbrica che era stata costruita da una ditta di Padova “in un quartiere a maggioranza dei Tebu, che era sotto la direzione degli Awlad Suleyman, con funzionari Aheli (arabi) e come lavoratori i migranti”. E sempre con il Ciheam, che ha firmato un accordo con le autorità libiche per sostenere il settore agricolo nel sud della Libia, “stiamo ora aprendo altri sette centri in tutto il Fezzan, oltre a quello che già avevamo a Sebha, in cui saranno presenti tecnici agricoli e uno staff di mediazione che lavorerà con le comunità”. Altro progetto, ancora in fieri, sollecitato anche questa volta dai leader Tebu, Tuareg e Awlad Suleyman e sostenuto da Ara Pacis è quello riguardante la nascita di un Consiglio del Fezzan, “un organo che rappresenti tutte le tribù e che possa essere portavoce delle esigenze, delle aspirazioni della regione, che offra alla comunità nazionale e internazionale un unico interlocutore”. “Sono 3.000 le tessere dei membri raccolte finora per il Consiglio e una volta superata la soglia dei 4.000 membri si procederà con le elezioni dei rappresentanti”, ha spiegato. NEL SAHEL LA LEZIONE DI DESMOND TUTU, HANNAH ARENDT E MAOMETTO L’azione di mediazione avviata dall’onlus italiana nello spazio saheliano, abitato da comunità che tradizionalmente non conoscono confini, nasce dall’esperienza delle oltre 100 personalità riunite in Ara Pacis, “provenienti da tutto il mondo, che hanno vissuto situazioni di conflitto e che hanno avuto il coraggio di separare ‘the deed from the doer’ (l’atto dall’autore, ndr), perché non si condanna il doer, si condanna il deed”, ha spiegato Gaida. Questa, ha rimarcato la presidente, “è la grande lezione della Commissione per la verità e la riconciliazione di Desmond Tutu, ossia che la vittima ha come prima necessità quella di veder riconosciuto il male che ha subito. Una volta riconosciuto il male, questo libera la vittima che riesce così a immaginare la possibilità di perdonare. Perché, come dice Hannah Arendt, il perdono è l’attributo squisitamente umano che permette di continuare a vivere”. E la onlus ha rafforzato tale azione, rilanciando proprio nel Fezzan anche “il primo accordo di coesistenza fatto dallo stesso Maometto, la carta di Medina, un accordo vero e proprio per mettere pace tra le tribù di Medina” che è stato tradotto nel “Patto per la convivenza pacifica e l’armonia sociale del Fezzan, firmato lo scorso anno da tutti i rappresentanti delle tribù con i due vicepresidenti del Consiglio presidenziale libico, Moussa Al Kuni e Abdullah al-Lafi”.