Papa Francesco nel cuore dell’Europa, contrappunto al sovranismo

Bergoglio è consapevole che pandemia può alimentare il populismo

SET 15, 2021 -

Papa Città del Vaticano, 15 set. (askanews) – Papa Francesco ha usato il suo viaggio nel cuore dell’Europa – Ungheria e Slovacchia – per lanciare un messaggio di solidarietà, apertura e fratellanza contrapposto alla politica sovranista che si va affermando in vari paesi del vecchio continente. “Non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale”, ha detto il pontefice argentino nella messa di rito bizantino che ha celebrato martedì a Presov. “Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita”. Jorge Mario Bergoglio è consapevole da tempo che il populismo di destra cerca di impossessarsi del cristianesimo, dei suoi simboli e del suo linguaggio, tradendolo. “In paesi a maggioranza cristiana”, ha affermato durante la pandemia nel libro intervista ‘Ritorniamo a sognare’ con il giornalista Austen Ivereigh (Piemme), “il nazionalpopulismo ha l’inverosimile presunzione di difendere la ‘civiltà cristiana’ da ipotetici nemici, siano essi l’islam, gli ebrei, l’Unione europea o le Nazioni Unite. Questa difesa alletta persone che spesso non sono più credenti, ma considerano le tradizioni della loro nazione come una identità. Le loro paure e la loro perdita di identità si accrescono e allo stesso tempo diminuiscono la loro frequentazione delle chiese”. Per Francesco, “persone non credenti o superficialmente religiose votano per i populisti affinché proteggano la loro identità religiosa, indifferenti al fatto che la paura e l’odio dell’altro non si possono conciliare con il Vangelo”. Durante i quattro giorni del suo 34esimo viaggio, il pontefice 84enne, apparso in buona forma dopo l’operazione al colon dello scorso luglio, ha disseminato le tappe di sottolineature su cosa il Vangelo indica e cosa, al contrario, non è evangelico. Un discorso particolarmente attuale in una regione, quella dell’Europa orientale, alle prese con una lunga e complessa transizione post-sovietica, tra secolarismo, consumismo e ripiegamento identitario. “Il vostro Paese, oggi, è attraversato da grandi cambiamenti che investono in generale l’Europa intera”, ha detto domenica ai vescovi ungheresi: “Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti. Chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna”. “Lo sguardo cristiano non vede nei più fragili un peso o un problema, ma fratelli e sorelle da accompagnare e custodire”, ha detto il giorno dopo alle autorità civili slovacche. Nel corso della messa al santuario di Sastin, oggi, ha incoraggiato i fedeli a diffondere “il buon profumo dell’accoglienza e della solidarietà, laddove prevalgono spesso gli egoismi personali e collettivi”. Anche gli appuntamenti scelti hanno ribadito plasticamente il messaggio di dialogo e apertura: la comunità ebraica di Bratislava per un omaggio alle vittime della Shoah e una condanna dell’antisemitismo, i senza-tetto assistiti dalle suore di madre Teresa, i Rom nel quartiere periferico Luník IX a Kosice. L’incontro con le autorità politiche hanno messo in scena in modo particolarmente evidente le sintonie e le idiosincrasie del papa. Evidenti sin dalla scelta del programma: a Budapest si è fermato solo sette ore, senza allargare la visita al resto dell’Ungheria, e invece in Slovacchia ha viaggiato in lungo e in largo per tre giorni e mezzo. Con Zuzana Caputova, presidentessa slovacca, gli scambi sono stati palesemente cordiali. Prima donna ad essere eletta allo scranno più alto, nonché la più giovane a occupare il ruolo, Caputova è espressione di un partito progressista, europeista ed ecologista. Francesco l’ha elogiata. Caputova ha ringraziato il papa per essere fonte di ispirazione oltre il perimetro della Chiesa; perché “si pone in modo evidente contro tutti coloro che vogliono sfuttare la religione per obiettivi politici”; perché “sottolinea che il nucleo del Vangelo include la sollecitudine per le persone bisognose, i senzatetto, le persone espulse dal proprio Paese a causa della guerra, del terrorismo e della povertà, e in molte occasioni ripete che ogni forma di antisemitismo, ma anche religiosa l’intolleranza è incompatibile con il cristianesimo”; e perché “nelle sue encicliche sociali metti in guardia dai più grandi pericoli del nostro tempo: populismo, egoismo nazionale, fondamentalismo e fanatismo”. Solo il giorno prima con Viktor Orban, campione dell’ultradestra europea, la divergenza è stata palese, al punto da aver fatto dubitare i più ingenui che Francesco lo avrebbe incontrato. Il papa ovviamente lo ha visto – nessuno sgarbo istituzionale – e l’incontro è stato cordiale. Non solo, per accortezza diplomatica il pontefice ha evitato, nel corso del suo viaggio, di usare esplicitamente la parola “migrazioni” o “immigrati”. Ma è sulla sostanza, non sulla forma, che si è registrata la distanza incolmabile. E non solo perché non c’è stato un faccia-a-faccia (come invece avvenuto col premier slovacco) ma un incontro collettivo della delegazione vaticana con quella governativa ungherese. Il primo ministro ha fatto sapere di aver chiesto al pontefice “di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca”; e di avergli regalato una copia della lettera che il re ungherese Béla IV nel 1250 aveva scritto a papa Innocenzo IV, in cui chiedeva l’aiuto dell’Occidente contro i bellicosi tartari che minacciavano l’Ungheria cristiana. Evidente allusione alle politiche di respingimento dei migranti odierni e all’auspicio di un sostegno papale. Che ovviamente non è arrivato. “Il sentimento religioso è la linfa di questa nazione, tanto attaccata alle sue radici”, ha detto poche ore dopo Francesco all’Angelus. “Ma la croce, piantata nel terreno, oltre a invitarci a radicarci bene, innalza ed estende le sue braccia verso tutti: esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; ad attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. Il mio augurio è che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi”. Le parole del papa espongono un contrappunto esplicito alla retorica sovranista. La sua presa di posizione è politica, e non perché anche le visite pastorali hanno un inevitabile contenuto politico; ma perché è stata la politica populista, in Ungheria e in diversi altri paesi d’Europa, a tentare di impossessarsi del cristianesimo. Jorge Mario Bergoglio è una delle voci globali che si contrappone più apertamente a questo tentativo. Perché ha capito da tempo che il populismo di destra rappresenta una minaccia radicale al cristianesimo, tentando di ridurlo a vessillo identitario, svuotandone la fede, frantumando la Chiesa universale secondo confini nazionali e tradendo il Vangelo. E perché con l’occhio lungo del pastore d’anime ha capito, forse più di altri leader mondiali, che esso è tutt’altro che esaurito. E che, anzi, la pandemia può dargli in prospettiva nuova forza. Per questo ha sottolineato che “in un momento nel quale, dopo durissimi mesi di pandemia, si prospetta, insieme a molte difficoltà, una sospirata ripartenza economica, favorita dai piani di ripresa dell’Unione Europea”, “si può correre tuttavia il rischio di lasciarsi trasportare dalla fretta e dalla seduzione del guadagno, generando un’euforia passeggera che, anziché unire, divide. La sola ripresa economica, inoltre, non è sufficiente in un mondo dove tutti siamo connessi, dove tutti abitiamo una terra di mezzo”, ha avvertito. E ancora: “Tanti, troppi in Europa si trascinano nella stanchezza e nella frustrazione, stressati da ritmi di vita frenetici e senza trovare dove attingere motivazioni e speranza. L’ingrediente mancante è la cura per gli altri”. E’ un antidoto al sovranismo. Ed è ciò che dice il Vangelo. di Iacopo Scaramuzzi