Immobile di Londra, la battaglia delle firme al processo vaticano

Il nodo dello specialismo tecnico degli investimenti vaticani

LUG 5, 2021 -

Vaticano Città del Vaticano, 5 lug. (askanews) – Le firme in calce ai diversi documenti della compravendita-truffa di un immobile al centro di Londra, a Sloane avenue 60, saranno prevedibilmente fonte di battaglia legale durante il processo penale che si apre il prossimo 27 luglio nel tribunale vaticano. Per questa vicenda i magistrati hanno rinviato a giudizio dieci imputati, tra i quali il cardinale Angelo Becciu, Sostituto agli affari generali all’epoca in cui, nel 2014, la Segreteria di Stato decise di investire 200 milioni di dollari che all’epoca erano nella sua disponibilità in una società del finanziere Raffaele Mincione. Quest’ultimo, a sua volta, destinò il denaro in parte a investimenti mobiliari, in parte agli ex magazzini di Harrods, in entrambi i casi provocando ingenti perdite nelle casse vaticane. Tanto che il successore di Becciu, il vescovo venezuelano Edgar Pena Parra, ha tentato di uscire dal pantano chiudendo l’affare. Ma suscitando i sospetti dello Ior (Istituto per le opere di religione) che ha dato il “la” alle indagini. L’inchiesta, lunga due anni, ha dovuto districare una matassa di legami personali e strumenti finanziari. L’accusa degli inquirenti è che il depauperamento dei fondi pontifici sia avvenuto a vantaggio di una serie di personaggi, che, dentro e fuori lo Stato pontificio, hanno agito di concerto. Ma chi ha truffato e chi è stato truffato? Delimitare il confine tra gli uni e gli altri è stata una delle sfide della pubblica accusa, che adesso sarà vagliata dai magistrati giudicanti. E c’è da scommettere che le firme, appunto, saranno disputate. Chi si troverà sul banco degli imputati, infatti, avrà tutto l’interesse a dimostrare di avere agito su mandato dei superiori. In una struttura fortemente gerarchica come il Vaticano, infatti, è difficile che una decisione venga presa senza avallo superiore. Ma è altresì difficile che, dato lo specialismo tecnico che simili investimenti presuppongono, essi siano stati valutati con piena cognizione di causa da chi ha molte altre responsabilità di governo. E’ possibile, insomma, che anche il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, e addirittura il papa in persona abbiano apposto la loro firma su alcuni passaggi di questa opaca trattativa? E, se così stanno le cose, erano pienamente informati, o hanno delegato la decisione a sottoposti che hanno tradito la loro fiducia? Le carte delle indagini confermano l’esistenza di questo problema. Al netto dell’italiano incerto, ad esempio, in un messaggio a Mincione citato dal Corriere della Sera, Torzi scrive: “Oh sui numeri gli abbiamo fatto un abracadabra che dopo tre gg ancora si riaccapezza”. Questo nodo affiora già nell’impianto accusatorio. Al momento di rilevare l’investimento con l’intermediazione del broker Gianluigi Torzi, ad esempio, i magistrati vaticani, ha riportato Vatican News, ritengono che “né mons. Alberto Perlasca, sottoscrittore dello Share Purchase Agreement, né i suoi Superiori, il Sostituto Edgar Pena Parra e soprattutto il cardinale Pietro Parolin, fossero stati effettivamente informati e comunque fossero consapevoli pienamente degli effetti giuridici che dalle diverse categorie di azioni sarebbero scaturiti”. La stessa procura del Sostituto, che sarebbe stata necessaria per firmare l’accordo, viene ottenuta post-factum e senza che i superiori vengano messi a conoscenza del “trucco” che permette a Torzi di controllare tutto. Non è un caso, allora, che il cardinale Pietro Parolin abbia preannunciato che la Segreteria di Stato si è costituita parte civile – sarà rappresentata dall’ex ministro Paola Severino – in quanto “vittima”. “Non so se sarò (convocato come testimone), ma se me lo domandano sì, sono pronto ad andare”, ha spiegato Parolin in questi giorni in Francia per un viaggio. “Se mi dicono, ‘lei è responsabile di tutto quel che è accaduto’, avrò senza dubbio delle cose da dire, delle risposta da dare”. Così come non è un caso che già diversi mesi fa la Santa Sede sia corsa ai ripari. Non solo il papa ha spostato i fondi gestiti sino ad allora autonomamente dalla Segreteria di Stato sotto il controllo dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa). A giugno dell’anno scorso, il papa ha anche promulgato un “codice appalti” che smina il campo del clientelismo. E a fine settembe ha creato una “Commissione materie riservate”, affidandone la presidenza al cardinale statunitense Kevin Farrell. Al di là del nome un po’ oscuro della commissione, che ha suscitato le ironie di ambienti vicini a chi oggi si trova sul banco degli imputati, questo organismo collegiale deciderà i contratti pubblici più delicati assicurando, si leggeva su Vatican News, “controllo e vigilanza”. Evitando, dunque, che il vengano assunte decisioni finanziarie senza i dovuti approfondimenti. Sono finiti, insomma, i tempi in cui, per eludere i controlli, un alto funzionario andava direttamente dal papa per farsi autorizzare lo stanziamento di un finanziamento. Approfittando della sua fiducia, e tradendola: con una firma.