Origini del Covid-19, nuovo studio rilancia ipotesi mercato Wuhan

In 2 anni e mezzo venduti 47mila animali selvatici (ma non pangolini)

GIU 9, 2021 -

Coronavirus Roma, 9 giu. (askanews) – Dopo che da giorni diverse voci hanno rilanciato l’ipotesi che il coronavirus responsabile della pandemia Covid-19 possa essere “sfuggito” a un laboratorio di Wuhan, in Cina, oggi un nuuovo studio ha riportato il focus sul famigerato mercato di animali selvatici della città cinese. La ricerca, pubblicata su Scientific Reports e firmata da studiosi di Oxford e cinesi, segnala che oltre 47mila animali selvatici appartenenti a 38 specie sono stati venduti nei due anni e mezzo (maggio 2017-novembre 2019) precedenti al primo caso accertato di Covid. Lo studio, inoltre, segnala che tra gli animali selvatici venduti o macellati nel mercato, non ci sono pipistrelli o pangolini, che in precedenza erano stati considerati tra i più probabili responsabili del salto di specie agli esseri umani. La ricerca, intitolata “Animal sales from Wuhan wet markets immediately prior to the COVID-19 pandemic”, è firmata tra cinque studiosi occidentali e cinesi, provenienti dall’Università di Oxford, dalla China West Normal University e dall’università canadese della British Columbia. Tra le specie che venivano vendute e macellate, in condizione di promiscuità con gli umani e di scarsa igiene, ce ne sono almeno quattro che potrebbero aver trasmesso il virus Covid-19. Si tratta, secondo i ricercatori dello zibetto, del visone, del tasso e del cane procione. Nello studio viene anche dimostrato che le condizioni di igiene nel mercato erano scadenti, mentre non veniva fatto alcun controllo obbligatorio sulla salute degli animali venduti, le cui origini non venivano altrettanto accertate. Solo tra gennaio e febbraio del 2020, poi, vennero adottati due provvedimenti dal governo cinese, uno temporaneo e l’altro permanente, che vietavano la vendita e il consumo di animali non d’allevamento. I banchi vendita del mercato di Wuhan in cui veniva effettuato questo commercio erano 17, dei quali 13 avevano licenze legali per vendere animali selvatici. Gli animali venivano solitamente venduti in gabbia, vivi. Il 30 per cento delle sei specie di mammiferi che gli studiosi hanno potuto analizzare presentava ferite o d’arma da fuoco o di trappole, il che suggerisce che erano stati catturati illegalmente. Buona parte dei banchi vendita offrivano “servizi di macelleria sul posto, con considerevoli implicazioni per l’igiene del cibo e la qualità sanitaria degli animali”, si legge nello studio. L’animale selvatico venduto a prezzo maggiore era la marmotta (25 dollari per kg), mentre i cani procioni e tassi avevano prezzi che si aggiravano tra i 15 e i 20 dollari al kg. Lo studio, che rilancia l’ipotesi della trasmissione da animali selvatici, è visto con sospetto da alcuni ricercatori, i quali si sono chiesti perché si tratti di dati raccolti tra maggio 2017 e novembre 2019. Ma due degli autori, interpellati dal Wall Street Journal, hanno detto di non aver potuto condividere prima le loro scoperte perché il giornale scientifico ha avuto bisogno di diversi mesi per procedere con la necessaria peer-review. Uno dei due ha inoltre spiegato che i ricercatori hanno dovuto fare anche dei giri a vuoto, perché altri giornali scientifici non hanno voluto pubblicare l’articolo per non trovarsi tra le mani una “patata bollente”. La questione, in effetti, è particolarmente controversa e ha connotazioni politiche piuttosto evidenti. Il presidente Usa Joe Biden ha chiesto alle agenzie d’intelligence di fornirgli una valutazione approfondita sull’origine del virus e diversi analisti e ricercatori si sono dichiarati propensi a ritenere plausibile la teoria della fuga dal laboratorio di Wuhan. Pechino respinge questa ipotesi con sdegno, additandola come disinformazione americana. Da questa polemica, l’unico che appare uscire vincitore è l’ormai celebre pangolino, che ormai viene considerato innocente da molti ricercatori, compresi i cinque estensori dello studio. “Specificamente l’assenza di pangolini (e di pipistrelli, solitamente non mangiati in Cina centrale; le immagini dei media in genere li collocano in Indonesia) in base alla valutazione dei nostri dati dimostra che è assai impobabile che i pangolini siano implicati nello spill-over come ospiti del Covid-19. Questo non sorprende perché il commercio del pangolino vivo è ampiamente cessato in Cina”, scrivono i ricercatori. Quindi, una volta lasciati in pace i pangolini, siamo fermi al punto di partenza.