Sudcorea, la strategia di Moon Jae-in: non chiamatelo “colomba”

Un progetto articolato, che non prende sotto gamba la difesa, anzi

NOV 22, 2018 -

Roma, 22 nov. (askanews) – Definire Moon Jae-in una “colomba” per il suo ruolo nel disgelo intercoreano è riduttivo e rischia di non cogliere l’articolata strategia che il presidente progressista sudcoreano sta mettendo in campo. Una strategia che è volta a consolidare la posizione del suo Paese, schermandolo dalla volubilità della leadership americana, dai sospetti giapponesi, dalla sempre maggiore assertività cinese, oltre che dal pericolo nordcoreano.

Moon ha aperto quel processo che ha portato allo storico summit di giugno a Singapore tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong Un. E, in un momento di stallo nel processo che si spera porti alla denuclearizzazione di Pyongyang, continua a stimolare i contatti tra le due parti che si guardano con incessato sospetto.

Questo ruolo lo ha messo nel mirino di chi, tra i falchi a Washington, ritiene che sia in corso una manipolazione da parte nordcoreana, che ha portato Trump a sbilanciarsi troppo a favore del dialogo. Una valutazione che Moon ha cercato di respingere con interviste sui media americani, in cui ha spiegato che, in fondo, le sanzioni possono sempre essere ripristinate in caso si scopra un inganno nordcoreano.

Chi vede nell’azione per la pace di Moon una semplice spinta utopistica, rischia tuttavia di non tener conto della complessità dell’azione che l’inquilino della Casa blu sta mettendo in campo. Un’azione che ha come suo fulcro una sigla: MDT. Sta per “Mutual Defense Treaty” e rappresenta l’accordo sulla base del quale gli Stati uniti mantengono nella Penisola coreana 24mila soldati circa e soprattutto il controllo delle forze congiunte Usa-Sudcorea in caso di conflitto.

La presenza di questo pesante apparato militare americano rappresenta, nello stesso tempo, una limitazione della sovranità sudcoreana e una garanzia di poter rispondere a un eventuale attacco e una forza di dissuasione non indifferente. E’ evidente che questa forza – sia dal punto di vista di Seoul che da quello di Washington – ha una funzione regionale che va oltre la Penisola coreana. E’ fondamentale anche per contenere le ambizioni cinesi e funge da “tappo” strategico a un’eventuale tentazione giapponese di riarmarsi a fronte della minaccia coreana e, ancor di più, dell’assertività cinese.

Questa forza si è collocata in Corea alla fine della guerra, in regime di armistizio. Ma se la guerra di Corea dovesse veramente essere formalmente chiusa? Sono molte le voci che sottolineano come verrebbero a cadere la giustificazioni americane per il mantenimento del contingente americano, US Forces in Korea (USFK), e bisognerebbe ripensare il trattato di difesa reciproca Usa-Corea del Sud.

Da tempo si parla del passaggio del comando delle forze combinate da un generale americano a uno sudcoreano. Questo passaggio, che con la precedente amministrazione americana, sembrava aver preso un percorso certo, è ora di nuovo fermo. La fine del conflitto vedrebbe certamente questa evoluzione in maniera abbastanza automatica. Moon l’ha definito “un punto di partenza per prenderci da noi le responsabilità della difesa”. E il trattato – secondo quanto ha segnalato recentemente il sito specializzato 38 North – andrebbe in qualche modo adattato.

Per quanto riguarda le USFK, 38 North ha ipotizzato che potrebbe esserci una forma di ridislocazione che le renderebbe una presenza meno “pesante”. Per esempio, potrebbe essere adottato il sistema “Places, Not Bases”: al posto di avere delle pesanti basi dedicate, i soldati Usa potrebbero essere ospitati in strutture delle forze locali già esistenti che garantiscano l’operatività. E’ un sistema già messo in campo in altri Paesi alleati degli Usa, a partire dall’Australia.

Una seconda ipotesi è quella di spostare la gran parte della forza americana all’esterno della Penisola, per esempio in Giappone, Guam e su mezzi navali. Si tratta di un approccio che – secondo 38 North – enfatizzerebbe il ruolo delle forze sudcoreane in caso di attacco dalla Nordcorea.

Il terzo scenario è la possibilità che le forze americane spostino il loro focus dalla difesa del territorio alle operazioni di peacekeeping regionali, con un’enfasi importante sull’interoperabilità con le forze sudcoreane.

Tutti scenari che potrebbero essere certamente graditi a Moon Jae-in, che non apprezzerebbe certamente una spinta isolazionista di Trump, il quale già in campagna elettorale aveva ipotizzato un ritiro delle forze americane.

Per questo motivo, Moon ha voluto specificare in recenti interviste che la sua proposta di firmare con la Corea del Nord una “dichiarazione di fine guerra” vorrebbe dire la possibilità di inviare aiuto umanitario al Nord e altri scambi non politici. Ma non si arriverebbe ancora a un superamento dei rapporti attuali, per i quali bisognerebbe arrivare a un trattato di pace con la Corea del Nord. “Una cosa è chiara: Corea del Sud e Stati uniti non hanno nulla da perdere dai colloqui per la denuclearizzazione”, ha detto Moon in un’intervista di alcuni mesi fa, significativamente alla Fox News, la tv più vista dai “falchi” trumpiani.

Per capire, tuttavia, la complessità del disegno di Moon bisogna gettare un occhio anche a un altro aspetto spesso poco evidenziato sulla stampa occidentale. Mentre Moon spinge per arrivare alla fine del conflitto con Pyongyang, le forze militari sudcoreane sono al centro di una profonda trasformazione. Quell’apparato che ha fatto da braccio repressivo di regimi passati è al centro di un Defense Reform Project 2.0 che punta alla professionalizzazione. Entro il 2022 il numero di effettivi dovrebbe scendere da 618mila a 500mila, attraverso l’accorciamento della leva militare e un maggiore ricorso a forze esclusivamente professionali. Il numero dei generali dovrebbe scendere da 436 a 360.

“Anche se le relazioni intercoreane stanno migliorando e gli sforzi per denuclearizzare la Penisola coreana sono in corso, è ancora incerto l’esito di quanto sta accadendo”, ha detto il presidente qualche mese fa parlando ai vertici militari. Moon è stato un avvocato per i diritti umani, ma nel suo passato è stato anche un commando delle forze speciali. “Anche se sono in corso sforzi per la pace nella penisola coreana, è anche vero che le minacce potenziali sono in crescita in realtà”, ha detto ancora.

Defense Reform Project 2.0 include anche un piano che prevede la conquista di Pyongyang, in caso di guerra, senza l’intervento delle forze statunitensi. Si chiama in inglese Multidimensional Mobile Operation e prevede l’invio di due brigate aviotrasportate e lo sbarco di forze anfibie e paracadutisti. Il piano preve dei prendere il controllo della capitale nordcoreana in due settimane.