Meditazione del padre gesuita Occhetta: “L’eclissi della Pasqua”

Sarà pubblicata su Comunità di Connessioni

APR 16, 2022 -

Chiesa Roma, 16 apr. (askanews) – ‘Che vittoria sarà – ha esclamato Papa Francesco – quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie?’. È una domanda difficile per le generazioni che non hanno conosciuto la guerra. Eppure, omettendo la risposta, si sgretolano sotto le macerie la vergogna dei lager e degli eccidi, l’orgoglio della resistenza e la forza delle Costituzioni democratiche, la fede nella dignità umana e la scommessa delle Nazioni Unite, la stagione dei (soli) diritti e la scelta di un’Europa dei popoli antidoto ai nazionalismi. Sotto le macerie della cultura politica e sociale giace nascosta anche la Pasqua’. Lo scrive in una meditazione/riflessione su questo tempo di Pasqua, che sarà pubblicata sulla testata Comunità di Connessioni, il padre gesuita Francesco Occhetta, docente presso la Facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana e direttore e fondatore di “Comunità di Connessioni”, associazione che promuove l’impegno e il dibattito sui grandi temi dell’agenda politica del Paese. ‘Stupisce come nel dibattito pubblico la cultura della pace – unico vero dono della Pasqua – si sia improvvisamente eclissata. Almeno in Europa a retto fino a un decennio fa, per i padri costituenti erano parole sorgive. Le parole di odio e le strategie di guerra, invece, animano gli imbarazzanti dibattiti degli esperti di geopolitica, discorsi che, come un fiammifero acceso, sono destinati a bruciare le foreste che danno ossigeno al mondo. Parole di corto respiro, spesso in contraddizione tra loro e con uno sguardo presbite, incapace di guardare lontano. Certo, esiste un diritto alla cronaca per raccontare gli orrori della guerra, le responsabilità degli aggressori, l’aiuto agli aggrediti, le scelte degli Stati e le nuove alleanza geopolitiche. Ma si è improvvisamente eclissata la radice spirituale che, insieme ad altri livelli ermeneutici, costruisce le ragioni della politica nel dibattito pubblico. Dalla cronaca deve emergere anche il bene silenzioso, antidoto al male istituzionale, che si dà nell’accoglienza, nella cura dei feriti e degli ammalati, negli aiuti che diventano solidarietà strutturata’, prosegue Padre Occhetta. In particolare, ‘è il livello della coscienza personale e sociale che avverte ciò che è male e ciò che bene e rigetta il paradigma della guerra come unico modello possibile. Basterebbe un referendum per scoprire che le popolazioni ripudiano la guerra e la nostra coscienza grida alla pace. Lo mostrano le immagini: a pagare sono gli innocenti. Durante la Prima Guerra mondiale la percentuale di vittime tra i civili si aggirava intorno al 5% dei morti, durante la seconda la percentuale è salita al 50%, nei conflitti di questi ultimi 20 anni le vittime civili della guerra sono il 90% dei morti. Come può essere giustificato questo dato? Per quale motivo non facciamo tesoro dell’eredità della classe dirigente del dopo-guerra che ha scelto di costruire investendo forze e risorse sul paradigma della pace sociale? Guerra e pace, Caino e Abele, morte e risurrezione: sono le radici dell’unico albero della vita e dell’esperienza umana. Paradigmi inconciliabili a cui aderire per non rischiare di combattere in nome di Dio senza conoscere il suo Vangelo’. ‘Per ribadire che un’alternativa esiste, la Chiesa non si stanca di riaffermare il valore della pace e lo fa attraverso le parole e le scelte di Papa Francesco – sottolinea padre Occhetta -. Ma ha tutti contro: i Paesi occidentali, i media più potenti e gli intellettuali europei. Eppure, l’azione di Francesco si inserisce in un solco antico. Con la Pacem in terris, Giovanni XXIII si rivolgeva a credenti e ai non credenti, per dire loro che ‘la pace è doverosa’ e dipende da ciascuno. La guerra fredda aveva diviso il mondo in due parti, ma anche il cuore dei popoli. Il testo ha fatto proprie le posizioni contro la guerra della Chiesa nel Novecento contenute nella Lettera ai capi dei popoli belligeranti (1° agosto 1917); nell’enciclica Pacem Dei (23 maggio 1920) di Benedetto XV; nell’enciclica Ubi arcano (23 dicembre 1922) di Pio XI e i radiomessaggi natalizi di Pio XII, in particolare quello del 1941. Il clima di allora non era meno duro di quello attuale: nel 1961 era stato eretto il muro di Berlino; nel 1962 scoppiò la crisi di Cuba, quando l’installazione di missili sovietici avevano portato il mondo a un passo da un conflitto nucleare. Nessuna casistica per determinare se si possa giustificare la guerra nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla. La Chiesa chiede di partire dal paradigma della pace, ‘anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi’ attraverso i 4 pilastri per fondare l’ordine politico: la verità (storica), la costruzione della giustizia, la carità e la libertà. Sono le condizioni per un ‘disarmo integrale’ che investe ‘anche gli spiriti’ (n. 61) secondo Papa Roncalli. La pace non è soltanto assenza di guerra, ma è un insieme di relazioni positive tra le persone e tra le comunità. È per questo che, per superare l’eterno presente che impedisce di ricostruire le ragioni storiche dei conflitti e di riflettere sulle loro conseguenze, per i padri conciliari rimangono decisivi la formazione dei diritti dell’uomo, le politiche del disarmo e una nuova governance internazionale. Paolo VI (1963-78) amava distinguere una doppia natura della pace: la pace interiore e quella esteriore. Quest’ultima, che è la pace civile o politica, si può costruire solamente se passa attraverso la pace del cuore di coloro che la vogliono costruire. Nello storico discorso alle Nazioni Unite nel 1965, citando John Kennedy, Paolo VI affermò: ‘L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità’. Questa opzione precede il dialogo fecondo che la Chiesa ha avuto con il liberalismo e il personalismo. La Chiesa non si identifica con le istituzioni storiche e le parti in gioco o in conflitto, sarebbe come confondere il lievito con la farina. É la cura e la formazione della ‘pace del cuore’ ad arginare le violenze e le guerre che iniziano sempre da incomprensioni interiori come la mancanza di dialogo e il non riconoscimento. Durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, la Chiesa ha affermato che la guerra moderna non può essere giustificata con la dottrina della guerra giusta per limitare la guerra ed elaborata da teologi come Agostino, Tommaso e la scuola di Salamanca. Le condizioni elaborate dalla dottrina cattolica per limitare la guerra erano: 1) l’auctoritas principis, la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale; 2) la iusta causa, la guerra doveva essere dettata da una giusta causa; 3) la recta intentio, la guerra doveva perseguire il bene e sconfiggere il male; 4) la giusta proporzione all’attacco subito’. ‘Dopo l’attacco degli Usa all’Iraq – ricorda ancora padre Occhetta – Giovanni Paolo II scelse di condannare definitivamente la guerra. Con Benedetto XVI la Chiesa si è impegnata sul fronte della prevenzione della guerra, lo ius prae-bellum. La dottrina sociale della Chiesa ha chiesto a ogni credente di investire nella formazione, nello sviluppo economico, nelle buone governance, nell’impegno a cercare nei conflitti tutte le mediazioni possibili. La diplomazia pontificia ha silenziosamente operato per le politiche di riduzione degli armamenti nucleari e per promuovere una maggiore efficacia delle Nazioni Unite, soprattutto del Consiglio di Sicurezza, che tenga in debito conto i mutati equilibri geopolitici. È la silenziosa foresta che cresce, la vera minaccia ai signori della guerra che credono nelle mine anti-uomo, nelle bombe a grappolo e nel nucleare. ‘La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli’, riporta come un monito la Caritas in veritate che ai credenti restituisce una responsabilità: non essere ideologicamente pacifisti, ma essere costruttori di pace, essere pacificatori durante le guerre, stare dalla parte della difesa della vita dei deboli. Gli interessi degli Stati – e sono tanti – non possono avere un valore maggiore di quello della vita delle persone. L’energia, la ridistribuzione delle risorse, la gestione dell’immigrazione servono per rispettare lo sviluppo umano, non per strumentalizzarlo’. Con Papa Francesco, scrive Occhetta ‘la Chiesa fa una scelta di campo dicendo ‘no assoluto’ alla guerra. Da alcuni questa posizione è ritenuta ingenua e a-storica. Al contrario, invece, il Papa chiede di aderire e condividere l’unico destino umano che va oltre gli interessi dei nazionalismi. Lo Scrive nell’Enciclica Fratelli tutti: ‘Non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’. Mai più la guerra!’. Non si tratta di un pacifismo che appare ‘terzo’ tra aggressore e aggredito. È un piano ermeneutico diverso. Aderire alla logica della fraternità come processo politico, aiuta a ricostruire la verità e la responsabilità ma anche a distinguere la vittima dal carnefice per ritrovare forme nuove di convivenza. La forza di queste prese di posizioni, all’apparenza assurde e irrazionali, sono nutrite dall’adesione alla Pasqua. Sono un esempio i gesti che ne esprimono la portata simbolica, come la croce portata da Irina e Albina, due colleghe una ucraina e l’altra russa, oppure la Via Crucis del Cardinale Krajewski che si è inginocchiato davanti alle fosse comuni di Borodjanka. Si vive tra il Calvario e il sepolcro vuoto, tra la condanna del giusto innocente e la giustizia della croce. Nella sua portata metastorica la forza della Risurrezione continua a produrre i suoi effetti. Vede il Risorto chi lo ha conosciuto nella sua vita. La Chiesa Ortodossa rappresenta la Pasqua con una discesa agli inferi di Cristo. L’icona dipinta nel XIV secolo da un iconografo di Pskov è l’immagine più nota. È il movimento di un uragano incontrollabile che entra nell’abisso, Cristo sembra un vortice di fuoco che purifica e separa, il suo è un movimento discensionale che fa tramare il resto della scena. Con la punta delle dita del piede destro rimuove, come un martello, le soglie dell’inferno: le spezza in due, frantuma le serrature e lo apre. Rimane solo chi rifiuta il dono radicale del Suo amore. Nell’icona di Pskov l’inferno ha poco spazio. Cristo è racchiuso in una mandorla circolare che simboleggia la sua gloria e la vita eterna, mentre sono raffigurati contemporaneamente tre spazi: quello ‘non di questo mondo’, lo spazio degli inferi, e un altro spazio, in cui si trovano i giusti. La Pasqua Ortodossa è anzitutto una discesa negli abissi. Discendendo negli inferi Cristo va alla ricerca dei progenitori dell’umanità: Adamo ed Eva. La loro fuga diventa un nuovo incontro. Gesù tende la mano per dire che la fede è allungargli la nostra e stringergliela. Le figure di Cristo, di Adamo ed Eva formano un triangolo. Si percepisce l’ordine che solo la forza dell’amore ricompone. Le spalle strette di Cristo esprimono la forza nella debolezza. L’energia che emana è esplosiva, i giusti partecipano alla sua vita, anche per loro, come per Adamo ed Eva, vivono se scelgono di stringere la mano a Cristo risorto’. ‘È davvero un grande mistero la logica della Pasqua. È il cuore ad aderire gradualmente. Lo raccontano i Vangeli: la mattina della risurrezione Maria di Magdala vede il masso rotolato dal sepolcro, ma pensa che qualcuno abbia rubato il corpo di Gesù. Pietro ne riconosce l’ordine ma non si spinge oltre. Giovanni entra per secondo nel sepolcro ma crede che quell’indebita assenza sia già presenza. Era il discepolo che lo amava. Per vivere la logica della Pasqua occorre tempo. È anzitutto attesa. La resurrezione non è automatica, non segue la morte immediatamente, devono passare tre giorni. Durante questa ‘assenza’ e in questo ‘silenzio’ di Dio le donne e gli uomini di ogni tempo sono chiamati ad affidarsi. Nella Scrittura le ‘categorie’ per riconoscere il Signore risorto rimangono quelle delle apparizioni che non lasciano ‘soggettiva’ la risurrezione, ma la rendono personale e sociale. Sono gli effetti della risurrezione che danno la forza di annunciare che ‘Cristo è veramente risorto’ e che ‘la vita vince la morte’. Ma occorre scegliere il proprio posto, riprendersi le proprie responsabilità, ricominciare dall’umanità che ogni persona condivide. Introdurre di nuovo, nel dibattito sociale e politico, le categorie proprie della dimensione spirituale, legate al senso della vita e del convivere insieme, aiuterebbe anche quelle politologiche e sociologiche che, altrimenti, impediscono alla luce della risurrezione di riapparire’, conclude padre Occhetta.