Licenziamenti, Tiraboschi: è falso problema, serve patto sociale

I veri temi sono la formazione e alzare la capacità produttiva

GIU 10, 2021 -

Lavoro Roma, 10 giu. (askanews) – Quello dei licenziamenti è un ‘falso problema’. Il mercato del lavoro è già molto ingessato. Giovani e donne hanno pagato più di altri il prezzo della crisi. La ripresa, che sarà selettiva, dovrà essere accompagnata con ‘misure adeguate’ e, soprattuto, con lo sblocco di ‘qualunque forma di lavoro’. Invece di litigare sui dati, che spesso mancano o sono poco affidabili per chi deve fare le scelte politiche, sarebbe più utile orientare le energie verso un ‘grande patto sociale’ come è avvenuto per il lavoro pubblico. Oggi il vero tema è capire quali sono i settori che possono generare maggiore occupazione, quali competenze e professionalità servono al mercato. Poi ‘alzare la capacità produttiva’ e realizzare gli investimenti sulla formazione. Questa è dunque la stagione di utilizzare gli strumenti che già ci sono, non costruire ex novo un nuovo modello sociale, riformare gli ammortizzatori. Le riforme impiegano alcuni anni per andare a regime e adesso il problema è ‘come trovare lavoro a chi lo sta perdendo’. Lo dice in un’intervista ad Askanews il giuslavorista Michele Tiraboschi, ordinario di diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico della scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro di Adapt. Il 30 giugno scade il blocco dei licenziamenti nell’industria manifatturiera e nell’edilizia. I sindacati temono una nuova emorragia di posti di lavoro dopo quelli persi nell’ultimo anno. Le aziende sostengono invece che, con la ripresa, in molti settori ci sarà bisogno di manodopera qualificata che, però, hanno difficoltà a trovare sul mercato. A suo giudizio sono fondate le preoccupazioni dei rappresentanti dei lavoratori? ‘Innanzitutto va segnalato che il nostro è un Paese che quando deve prendere le decisioni politiche non ha mai dati affidabili. Nel senso che prima si sceglie da che parte stare, e giustamente sindacato e imprese fanno il loro mestiere da posizioni diverse, ma poi i dati su cui fare le previsioni spesso mancano. Avendo guardato un po’ i dati Istat e le comunicazioni obbligatorie in realtà questa grande preoccupazione è parziale, perché il mercato del lavoro in questo anno e mezzo non è rimasto fermo. Ci sono state molte interruzioni di rapporti di lavoro, circa 500mila licenziamenti, dice l’Istat in una delle sue rilevazioni, che non sono per motivi economici, ma per altra natura. E soprattutto si è bloccato il mercato del lavoro temporaneo, dei tirocini, quindi le forme occupazionali più dirette ai giovani e all’occupazione femminile. Il tema dei licenziamenti è un po’ un falso problema, nel senso che non ci saranno come ha detto il governatore della Banca d’Italia. Ci sarà una ripresa selettiva. Ci saranno anche processi di digitalizzazione accentuata e la transizione ecologica. Quindi, non abbiamo indicatori che ci aiutino a capire quali settori e attività soffriranno e, viceversa, quali saranno alla ricerca di personale. E’ comprensibile tanto lo slancio e l’ottimismo delle aziende quanto però la paura e la diffidenza del sindacato in contatto con situazioni di crisi e di difficoltà’. A proposito di dati nel sindacato c’è chi teme che con la fine del blocco dei licenziamenti si possano perdere fino a 2 milioni di posti di lavoro. E’ una previsione realistica? ‘Assolutamente no. Bankitalia ha segnalato che i settori più in crisi sono stati turismo ed energia. Con la ripresa della mobilità ci sarà la ripresa del settore energetico e lo stesso vale per il turismo. Il problema serio per chi fa scelte politiche è l’assenza dei dati. Sparare dati senza avere un minimo fondamento crea solo tensioni, confusione, incertezze e paura sociale. C’è una grande ripresa in arrivo ed è evidente che va accompagnata con misure adeguate e, soprattutto, con lo sblocco di qualunque forma di lavoro, anche temporaneo. Il tema dei licenziamenti è un falso problema. Le persone hanno il problema di capire quali sono i lavori, i settori, le competenze, i mestieri, le professionalità. Un Paese normale dovrebbe ragionare su queste cose: come avviare un grande processo di riqualificazione professionale, in transizione da settori in crisi ad altri che invece sono dinamici e pronti a fare assunzioni’. La mediazione del premier Mario Draghi nel decreto sostegni bis è dunque una buona soluzione? ‘Non si può parlare di lavoro in termini generali e astratti. Il lavoro è diverso per settori produttivi, per territori, per mansioni e per profili professionali. Quindi più le misure sono appropriate per le esigenze di ciascun settore e ciascun mestiere e più le risposte sono esatte. E’ chiaro che sarebbe bene che le energie venissero spostate verso un grande patto sociale, come è stato fatto a marzo con il patto di rilancio del lavoro pubblico. Andrebbe esteso a tutto il mercato del lavoro, pubblico e privato, subordinato ed autonomo. Sarebbe un segnale di fiducia, tranquillizzerebbe il sindacato. Con la ripresa delle attività sono ripresi gli infortuni e le morti sul lavoro, il sindacato chiede garanzie in questo senso. Quindi, se si partisse da queste cose più concrete si eviterebbe di perdere tempo rallentando le scelte politiche e la ripresa. Il blocco va avanti da oltre un anno. C’è il rischio con ulteriori proroghe di ingessare ancora di più il mercato del lavoro? ‘Più ingessato di così! I giovani non trovano occupazione, le donne che hanno dovuto gestire anche i carichi familiari fanno fatica a trovare lavoro. Il mercato è già in grave difficoltà e crisi. Non è il blocco dei licenziamenti la vera causa, visto che molte persone sono escluse, soprattutto i giovani che hanno competenze e professionalità che adesso sarebbero utilissime. Ribalterei la prospettiva e inviterei gli attori sociali a ragionare più sulle cose da costruire che su quelle che dividono. Il blocco dei licenziamenti può essere l’ultimo dei temi dentro un pacchetto più ampio per ripensare il modo di lavorare, il quadro regolatorio, la valorizzazione della contrattazione collettiva, scelte quindi positive anche su come usare le ingenti risorse che stanno arrivando verso il tema della formazione e delle competenze. Questi temi non devono rimanere uno slogan, ma essere calati nella realtà, nei contesti produttivi e nei territori’. In questo contesto più ampio la riforma degli ammortizzatori e le politiche attive sono dei punti importanti? ‘Secondo me no. Nel senso che, come insegna la storia degli ultimi 30 anni in Italia, per fare una riforma che poi va a regime si impiegano circa 3-4 anni e spesso rimane sulla carta. Lo stesso vale per le politiche attive perché sono politiche pubbliche pensate in logica di ricollocare da posto a posto. Darei molto più spazio agli operatori privati del lavoro, a chi è sul campo e ha un interesse a che domanda e offerta si incontrino. Il problema è che spesso domanda e offerta non si incontrano non perché non ci sia un’esigenza, una richiesta di lavoratori o una richiesta di lavorare. Ma perché non c’è un allineamento tra domanda e offerta, quindi tra le competenze, i mestieri, le professionalità che le aziende chiedono e quello che i lavoratori invece sanno fare. Lo sforzo da fare sarebbe su questo: in una situazione di crisi e di rilancio, che è già partito, non si può pensare a riforme epocali che impiegano decenni per entrare a regime. Del collocamento se ne parla dalla legge Treu in avanti e non è stato fatto nulla di operativo. Anche perché poi devono intervenire le Regioni, le loro competenze. Lo stesso per gli ammortizzatori perché significa aumentare il costo del lavoro. Gli ammortizzatori sono serviti durante la crisi, li abbiamo usati e hanno coperto anche gruppi che rimanevano esclusi. Hanno fatto il loro servizio durante l’emergenza. Oggi serve invece riattivare il mercato del lavoro e la reciproca adattabilità tra lavoratori e imprese’. Quindi sbaglia chi dice di realizzare la riforma degli ammortizzatori prima di sbloccare i licenziamenti? ‘Potrebbe avere anche una sua logica, ma la storia insegna in tutto mondo, e in particolare in Italia, che una riforma degli ammortizzatori per andare a regime impiega anni. Se si pensa alle politiche attive e agli ammortizzatori, alla riforma Fornero e al Jobs act non c’è nulla di quello che serve. Le riforme sono state fatte, ma sono rimaste sulla carta. Mancano i decreti attuativi, le implementazioni a livello regionale. Sono quelle riforme che uno può disegnare a tavolino e sono bellissime, ma poi devono andare alle persone che hanno perso il lavoro ieri, non nei prossimi sei mesi. E’ difficile parlare di ammortizzatori adesso, li abbiamo appena usati. Hanno coperto tutti, oggi il problema è come trovare lavoro a chi invece lo sta perdendo. Del resto le imprese da questo punto di vista hanno ragione. Nella manifattura in particolare c’è un’esigenza di assumere in questa fase. Lo sblocco dei licenziamenti è vero che può provocare delle uscite, ma poi queste uscite devono essere dirottate verso competenze, professionalità, settori che invece chiedono questi lavoratori e non li trovano. Sarei molto pragmatico. E’ la stagione di utilizzare quello che c’è e non di costruire da zero un nuovo sistema e modello sociale, che si può fare in una terza fase. Ora siamo in una fase di ripresa. Rimessi in carreggiata la macchina produttiva, il mercato del lavoro e le attività economiche si può pensare in grande e a tutte le riforme del mondo che però da 30 anni proviamo a fare, ma che non riusciamo a fare’. In tema di politiche attive qual è la sua opinione sul reddito di cittadinanza? E’ stato uno strumento utile o un’esperienza da rivedere completamente? ‘E’ stata una prima sperimentazione ed è giusto a un certo punto fare un bilancio, guardare i dati per vedere cosa è successo. Le tendenze in tutto il mondo ci segnalano l’avvio di queste forme di reddito di cittadinanza, quindi non è un’anomalia italiana, legate al fatto che le trasformazioni del lavoro stanno riducendo la quantità di lavoro disponibile o quantomeno di lavoro produttivo. Non vedo nulla di male nel reddito di cittadinanza, l’errore è stato legarlo alle politiche attive. Sono due misure diverse. Un conto è dare sostegno a chi ha bisogno di un reddito per vivere una vita decente, altro è pensare a percorsi di inserimento e di riqualificazione professionale. Di certo, da questa esperienza abbiamo avuto la dimostrazione che anche il potenziamento dei centri per l’impiego non serve a nulla se prima non si ripensa il mercato del lavoro, i modi di lavorare. Il tema che manca e di cui nessuno parla è quello della produttività. Se cresce la produttività crescono le risorse che possiamo utilizzare per finanziare i percorsi formativi e altro. Il problema è che non abbiamo invece un sistema produttivo al pari di quello di altri Paesi per quantità di forza lavoro. Il tema è alzare la capacità produttiva come persone inserite nel mercato del lavoro e fare gli investimenti sulla qualità e formazione del lavoro per rendere il lavoro non solo più interessante per le persone, ma anche più produttivo. Quindi, capace di generare valore per tutti’. (di Vincenzo Sannino)