La fame di chip, il minuscolo componente che può bloccare il mondo

Intel investe 20 mld Usd per due nuove fabbriche e cambia strategia

MAR 24, 2021 -

Roma, 24 mar. (askanews) – E’ iniziata una nuova guerra e il campo di battaglia è minuscolo: quello di un chip. Sì, perché la pandemia Covid-19 ha chiuso masse enormi di persone in casa a vivere e lavorare, aumentando il fabbisogno di prodotti elettronici i quali, nel loro cuore, hanno appunto i chip. Questo ha provocato un boom della domanda. Nello stesso tempo, la guerra commerciale Usa-Cina e una serie di calamità naturali e disastri di vario tipo ha contribuito a produrre una crisi di offerta, con diverse industrie manifatturiere che hanno dovuto intervenire sulla loro produzione.

Oggi il settore dei semiconduttori è in pieno fermento. I principali player di mercato stanno investendo nell’aumentare la loro produzione, si contendono gli ingegneri e creano nuove alleanze per lavorare sull’aumento dei volumi e sulla ricerca. Si è mosso persino il presidente Usa Joe Biden, che a fine febbraio ha firmato un ordine esecutivo per affrontare la crisi dei chip.

Il comparto che appare al momento più colpito è quello dell’automotive. Le vetture oggi contengono diversi semiconduttori e hanno un elevato fabbisogno di questi prodotti. Diversi marchi hanno annunciato un impatto sulla loro produzione.

Negli Stati uniti a febbraio la Ford ha stimato un calo del 20 per cento della sua produzione nel primo trimestre, General Motors ha annunciato una revisione dei suoi piani di produzione.

In Asia la crisi dei chip è una grande preoccupazione per molte case automobilistiche. Hyundai ha lamentato il rischio di un blocco della produzione, il produttore di auto elettriche cinese Nio come Tesla ha affermato di temere che ci sia un rallentamento. Le giapponesi si trovano di fronte a un problema grosso: un incendio di qualche giorno fa ha fermato la produzione dell’impianto di produzione di chip Renesas a Hitachinaka, che rifornisce diverse case produttrici a partire da Toyota.

In Europa le case automobilistiche si sono tenute più abbottonate, ma tutti i principali marchi hanno segnalato l’incognita sulla produzione rappresentata dalla penuria di chip. Daimler, Stellantis, Volkswagen, Audi, Seat hanno detto che stanno gestendo la situazione e la stanno monitorando.

Secondo Jeremie Bouchaud, direttore della ricerca sui semiconduttori per l’Automotive di Ihs Markit, è in corso una “tempesta perfetta” in questo comparto e la produzione di chip tornerà alla normalità non prima del IV trimestre di quest’anno.

Quello dell’automobile non è, ovviamente, l’unico settore che già sente le onde telluriche di questo terremoto. Anche in quello dell’elettronica di consumo le preoccupazioni sono evidenti. Il principale produttore mondiale di smartphone Samsung, per esempio, ha annunciato che rinuncerà per quest’anno al lancio del nuovo Galaxy Note. Ieri Sony ha spiegato che, per ovviare al problema, sta lavorando anche a “modifiche progettuali” ad alcuni suoi prodotti.

Scott Zhang, capo della strategia estera di Oppo, ha affermato che d’ora in poi c’è da attendersi che la crisi dei chip diventi la normalità: “La domanda è esplosiva. La fame mondiale di capacità computazionale è estremamente forte e il consumo di dati sta crescendo enormemente. La capacità produttiva è costantemente in affanno”, ha spiegato Scott Zhang, capo delle attività all’estero di Oppo, in un’intervista a Nikkei Asia. “Oggi – ha proseguito – non solo l’industria tech, ma anche i player dell’automotive stanno competendo sui chip e sui componenti…Lo stress sulla catena di forniture è un fenomeno globale, è una delle sfide chiave che tutti i player industriali dovranno affrontare e risolvere”.

In effetti i grandi gruppi stanno cercando di ovviare alla situazione prendendo essi stessi iniziative. Apple, per esempio, ha annunciato un rafforzamento del suo laboratorio di chip europeo a Monaco di Baviera; Bosch ha aperto a Dresda uno stabilimento hi-tech dove produce il primo wafer chip con processo completamente automatizzato; Samsung ha annunciato di star valutando la possibilità di aprire quattro fabbriche di chip negli Usa.

Ovviamente i marchi che tradizionalmente producono chip non stanno a guardare. La cinese SMIC ha lanciato nei giorni scorsi un appello alla collaborazione globale per affrontare la crisi, ma il grande produttore della Repubblica popolare è soggetto a sanzioni negli Usa per i suoi rapporti con l’apparato militare. Intel, dal canto suo, ha annunciato che spenderà 20 miliardi di dollari per due maxi-impianti di produzione di chip in Arizona, che dovrebbero entrare in produzione nel 2024. Inoltre ha annunciato la costituzione di una sua società per fornire a terzi capacità di fonderia – per esempio, Apple – e rafforzando così la presenza Usa in un comparto che per l’80 per cento è nelle mani di operatori asiatici.

In Giappone tre player del settore si sono messi assieme per cercare di recuperare lo spazio di mercato perduto dal Sol levante. Canon, Tokyo Electron e Screen Semiconductor Solutions, in cooperazione con il Ministero dell’Economia, Commercio e Industria nipponico, sperano di poter rinverdire una tradizione che risale agli anni ’80 del secolo scorso, quando NEC, Toshiba e Hitachi dominanvano il settore.

Il più grande operatore mondiale, però, sta a Taiwan e si chiama TSMC, cioè Taiwan Semiconductor Manifacturing Company. Quest’anno – scrive oggi il Financial Times in un lungo articolo – il gruppo di Taipei, numero uno per le forniture di componenti semiconduttori all’industria, intende investire tra i 25 e i 28 miliardi di dollari, che vuol dire un 63 per cento in più rispetto al 2020.

Lo scorso anno TSMC ha promesso all’allora presidente Usa Donald Trump una fabbrica da 12 miliardi di dollari in Arizona. E inoltre ha annunciato che aprirà anche una sua controllata in Giappone. Una diversificazione necessaria perché non bisogna mai dimenticare che Taiwan è al centro di un forte rischio geopolitico, con la Cina che la reclama e con una minaccia sempre incombente di tensioni militari. Essere tropo dipendenti da un prodotto che viene realizzato prevalentemente in un’area calda del mondo è un pericolo per tutti.