Studio Usa: divorzio economico Usa-Cina appare inevitabile

Biden ammorbidirà linea Trump, a non l'abbandonerà

FEB 18, 2021 -

Roma, 18 feb. (askanews) – Le economie di Stati uniti e Cina sembrano ormai aver decisamente intrapreso la via del “decoupling”, cioè del divorzio. Sono queste le conclusioni a cui è giunto un rapporto diffuso dalla Camera di commercio americana in Cina e dal Rhodium Group, che prova a valutare il costo economico per l’America di questa evoluzione.

“Dopo quattro decenni di collaborazione economica tra Usa e Cina sono stati sviluppati legami per migliaia di miliardi di dollari in patrimoni, asset e flussi comerciali. Tutti questi sono ora a rischio, dal momento che la fase politica si evolve verso un futuro in cui i due paesi saranno meno collegati”, segnala il rapporto.

“Salvo un cambiamento nella traiettoria intrapresa da Pechino, che appare improbabile, dobbiamo assumere che la pressione verso il ‘decoupling’, guidata da preoccupazioni sulla sicurezza nazionale e sulla competitività, rimarrà”, osserva lo studio. “Appare chiaro – dice ancora – che ci saranno differenze nella maniera in cui l’amministrazione Biden affronterà le sfide poste dalla Cina rispetto all’approccio dell’amministrazione Trump. Ma non ci si può attendere un ritorno alla collaborazione come la conoscevamo. Il ‘decoupling’ probabilmente continuerà in una forma o nell’altra, anche se si evolverà in maniera più misurata e mirata”.

I primi passi dell’amministrazione Biden sono stati piuttosto chiari nell’individuare nella Cina il principale concorrente globale e la sfida più ardua di fronte all’America. Di certo i toni di Joe Biden sono meno sguaiati rispetto a quelli del suo predecessore alla Casa bianca, Donald Trump, ma la direzione intrapresa dalla politica estera statunitense nei confronti della Cina non pare destinata a svolte repentine.

Dal canto suo, la leadership cinese sta sempre più concentrandosi sul tema dell'”autosufficienza economica” e, spiega il rapporto, “ci sono pochi segnali che si stia preparando a dare una risposta alle lamentele occidentali sulle distorsioni prodotte dal ruolo dello stato nell’economia o a ridurre la sua applicazione del potere statale sull’economia e della coercizione all’estero”.

Nelle sue conclusioni il rapporto segnala le parole del presidente cinese Xi Jinping, per il quale la Cina deve assottigliare la dipendenza dalle catene industriali internazionali per formare “una potente capacità deterrente e di reazione”. Dichiarazioni che sono in contraddizione palese con l’asserita volontà di Pechino di favorire un’economia sempre più aperta.

In tal senso, lo studio ricorda la strategia della “Doppia circolazione” adottata dal Partito comunista cinese, in base alla quale viene data una “pesante enfasi alla costruzione di una resilienza delle catene di forniture interne, compreso un esplicito richiamo da parte dello stesso Xi alla sostituzionel delle importazioni”.

Il rapporto suggerisce che il sistema regolatorio cinese è modulato in maniera da fornire una serie di strumenti atti a costruire una supremazia in campo industriale e tecnologico: misure amministrative, regole per gli appalti, norme di cybersicurity e regime di trattamento dei dati, tutti vantaggiosi per i player locali rispetto ai concorrenti che arrivano dall’estero.

La costruzione del sistema dei “crediti sociali”, inoltre, appare – secondo il rapporto americano – uno degli strumenti che ha lo scopo di rafforzare il potere del Pcc sull’economia e di discriminare ulteriormente le compagnie straniere rispetto a quelle nazionali.

La stretta sulla libertà di espressione, la montante censura, ancora, è visto dai ricercatori del Rhodium Group e della Camera di commercio Usa in Cina come un ulteriore laccio per le aziende straniere, assieme a una serie di divieti all’import. E questi trend “sembrano destinati a continuare e probabilmente daranno adito a richieste di ulteriore ‘decoupling’ da Washington”, sostiene il rapporto.

Il “decoupling”, tuttavia, ha un costo, avvertono i ricercatori. E, parzialmente, l’economia americana lo sta già pagando.

Per esempio, negli interscambi commerciali, se i dazi del 25 per cento dovessero essere ampliati a tutto il commercio bilaterale, gli Usa perderebbero ogni anno, in termini di Pil, 190 miliardi di dollari entro il 2025. Per quanto riguarda invece gli investimenti diretti, gli Usa perderebbero 25 miliardi di dollari all’anno in capital gains e i modelli stimano una perdita una tantum per il Pil americano di 500 miliardi di dollari.

Nel settore dei flussi di persone il dato appare ancor più certo, perché una prova generale c’è stata con l’epidemia COVID-19. Se i futuri flussi di turisti e studenti venissero ridotti di metà rispetto ai livelli pre-Covid, gli Usa perderebbero tra i 15 e i 30 miliardi di dollari annui.

Un colpo pesante lo subirebbe l’industria aeronautica americana, che perdendo l’accesso al mercato cinese dovrebbe rinunciare a una cifra che va dai 38 ai 51 miliardi di dollari all’anno. Il settore, entro il 2038, accumulerebbe mancati introiti per 875 miliardi di dollari.

Ancora peggiore sarebbe il bilancio per il settore dei semiconduttori, che pagherebbero trea i 54 e i 124 miliardi all’anno di mancate entrate, con un rischio per 100mila posti di lavoro americani, 12 miliardi in meno di ricerca e sviluppo e 13 miliardi in mano di spese da capitale. Pesanti perdite le sconterebbero anche il settore chimico e quello sanitario.