Cina-Ue, l’accusa: Europa commercia con Xinjiang nonostante abusi

SCMP: boom di importazioni in Italia di pomodoro da regione cinese

FEB 17, 2021 -

Roma, 17 feb. (askanews) – L’antica Via della Seta terrestre, si sa, partiva dalla Cina e arrivava fino all’Italia, connettendo l’Eurasia. E, oggi, la strategia Belt and Road voluta dal presidente cinese Xi Jinping cerca di ravvivare questo flusso di merci, uomini e dati. Ciò porta a uno sviluppo degli scambi tra la parte occidentale della Cina e l’Europa particolarmente intenso. Ma quel pezzo della Repubblica popolare è anche un luogo in cui accadono fatti che – secondo le organizzazioni internazionali e diversi governi occidentali – non sono compatibili col sistema dei diritti umani. Si tratta dello Xinjiang, dove vive la minoranza uiguro-musulmana. Di fronte a questa contraddizione, l’Unione europea e i suoi Stati membri sembrano seguire una linea piuttosto evanescente.

A segnalarlo è oggi un’inchiesta del South China Morning Post, che rileva un vero boom del commercio tra il Xinjiang – dove molte voci denunciano una sistematica violazione dei diritti umani, parlando di “genocidio” – e i principali paesi manifatturieri dell’Europa, Italia tra i primi.

In particolare, uno dei prodotti principali che viene importato dalla provincia occidentale cinese è la salsa di pomodoro, proprio quella che viene usata per condire la rinomata pasta italiana. Il SCMP segnala che lo scorso anno le importazioni di salsa di pomodoro dallo Xinjiang in Italia ha toccato i 65 milioni di dollari, con un incremento del 164 per cento rispetto al 2017. Il giornale di Hong Kong segnala anche che il pomodoro, che arriva nella forma di triplo concentrato, viene poi allentato con acqua e insaporito col sale per andare sui mercati africani e mediorientali come prodotto made in Italy.

Il punto è che la produzione di pomodoro e dei suoi lavorati, che ammonta al 5 per cento dell’economia dello Xinjiang, è completamente nelle mani del governo locale, cioè del Partito comunista dello Xinjiang, attraverso la controllata Xinjiang Chalkis Tomato Products. Le sanzioni Usa hanno colpito a gennaio le importazioni di pomodoro dalla provincia: secondo il Dipartimento alla sicurezza interna americano questi prodotti sono realizzati con l’utilizzo di lavoro forzato dei detenuti uiguri.

Da Pechino la smentita sulla repressione degli uiguri è totale. Più volte la Cina ha smentito che ci siano persecuzioni, detenzioni di massa e l’utilizzo del lavoro forzato.

L’Italia non è, ovviamente, l’unica ad aver intensificato il commercio con la provincia cinese. La Germania ha venduto verso il Xinjiang qualcosa come 41,2 milioni di dollari di parti e accessori per i macchinari dell’industria tessile nel 2020, con un incremento del 2.763 per cento rispetto al 2017. La Svizzera, secondo paese per questo tipo di export, è arrivata appena a 680.279 dollari.

Nello Xinjiang viene prodotto l’85 per cento del cotone cinese e il 20 per cento di quallo mondiale. E, secondo le accuse, il settore è “pesantemente implicato nei presunti abusi di diritti umani nella regione autonoma”, scrive il SCMP. Lo statunitense Centre for Global Policy nel 2018 ha scritto che almeno 570mila persone sono mobilitate con la forza per la raccolta del cotone nella provincia.

Anche in questo caso gli Stati uniti hanno agito per vietare investimenti e affari legati al cotone prodotto nella regione con il lavoro forzato.

Ancora, il Belgio. Nel 2020 le importazioni di giacche da donna dallo Xinjiang sono cresciute del 2.280 per cento rispetto all’anno precedente e quelle di decorazioni natalizie del 1.500 per cento. Il Dipartimento al Lavoro degli Usa considera questi ultimi prodotti come realizzati attraverso il lavoro minorile e il lavoro forzato.

E l’Unione europea? Bruxelles non ha in vigore un sistema di sanzioni nei confronti della Cina in merito al presunto utilizzo di lavoro forzato. Ma ha inserito nel recente accordo sugli investimenti (“Comprehensive Agreement on Investment”) con Pechino una clausola che vincola la Cina alla ratifica delle regole dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO). Abbastanza poco, secondo i critici, in un momento in cui pochi in Europa sarebbero pronti a dire che possiamo fare a meno di commerciare con l’unica grande economia del mondo che è uscita dal 2020 in crescita.