Un libro per il 2021, le straordinarie lettere di Samuel Beckett

Pubblicato da Adelphi il secondo volume della corrispondenza

DIC 20, 2021 -

Libri Milano, 20 dic. (askanews) – Un gigante del Novecento, la cui lezione resta attuale come poche altre e di cui oggi si scoprono aspetti diversi, per molti versi inediti. Uno dei libri più importanti usciti nel corso di questo 2021, anno a cavallo della pandemia e dal tempo ancora relativamente sospeso, è il secondo volume delle lettere di Samuel Beckett, quelle relative agli anni 1941-1956, periodo nel quale lo scrittore irlandese, per così dire, diventa se stesso e le sue opere arrivano al successo internazionale. Edizione italiana curata da Franca Cavagnoli per La collana dei casi dell’editore Adelphi, sempre più al centro della scena culturale nonostante la morte di Roberto Calasso, il libro ha l’enorme forza di restituirci la parola di Beckett, quella parola che i suoi romanzi, il suo teatro e la sua poesia avevano progressivamente prosciugato, fino quasi a farla scomparire, come nell’indimenticabile componimento “Qual è la parola”, secondo alcuni la sua ultima poesia. Nella corrispondenza Beckett scrive e parla, molto, “quasi che il ritiro imposto dalla scrittura di prosa e teatro esigesse di essere integrato da quella scrittura più immediatamente di relazione”, si legge nell’Introduzione generale. E i risultati sono molto spesso clamorosi, come nella missiva del settembre 1946 a Simone de Beauvoir, nella quale Beckett protesta, con compostezza, per la decisione di pubblicare sulla rivista “Les Temps Modernes” solo la prima parte del racconto “Suite”. “Lei mi accorda la parola – scrive l’irlandese – per poi ritirarla quando non ha ancora avuto il tempo di significare qualcosa. Lei immobilizza un’esistenza sulla soglia della sua risoluzione. Tutto ciò ha un che di incubesco”. Parole che, possiamo forse pensare con il senno di poi, in qualche misura possono anche descrivere le operazioni di riduzione quasi assoluta che lo scrittore farà nelle sue opere negli anni successivi. Altri passaggi memorabili ci portano a leggere della ricerca di “un motivo adatto a far esplodere tutto questo misero miscuglio”, in una lettera all’amico Georges Duthuit. E questo motivo sta “nel coraggio dell’imperfezione, del non essere, dove viene ad assalirci la tentazione di essere ancora un po’, e la gloria di essere stati un po’, sotto un cielo indimenticabile. Sì, va cercato nell’impossibilità di non avere mai abbastanza torto, di non essere mai abbastanza ridicoli e indifesi”. O ancora, sempre a Duthuit: “Non basta una vita per assuefarsi a questa oscurità, di cui quindi non sono mai riuscito a parlarti, se non blaterando fiumi di idiozie. È che esserci ti scoraggia a parlarne, non esserci non te ne dà il diritto”. E poi: “Hai ragione, pretendere che il cervello funzioni è il massimo dell’idiozia, o cosa sinistra come gli amori di un vecchio”. Si sente l’eco, in queste frasi semplici, rubate da un contesto più ampio, di quello sguardo assolutamente libero da giudizi e da una idea di qualsivoglia morale, che è la cifra del Beckett scrittore, la misura della sua grandezza e forse anche il prezzo del fraintendimento cui la sua opera, così come quella di Kafka, è stata esposta nell’immaginario collettivo, dove viene relegata in definizioni semplificatorie ed esclusive, legate alle idee, per esempio, di angoscia e assurdo. Ma l’opera di Beckett è molto più ampia, universale, assoluta, ossia sciolta dalle sue stesse definizioni e perfino dalla vita del suo autore. Che peraltro queste lettere ci restituiscono in maniera unica, forse parziale, ma, letterariamente rilevante. E parlano con straordinaria attualità di una delle avventure intellettuali decisive del secolo scorso, ancora più cruciale di fronte ai tempi che stiamo vivendo. (Leonardo Merlini)