I disegni di Kafka: una leggerezza che va oltre lo stereotipo

Considerazioni militanti sull'uso dell'aggettivo "kafkiano"

OTT 29, 2021 -

kafka leonardo merlini Libri Milano, 29 ott. (askanews) – Uno dei grandi fraintendimenti che hanno segnato la storia culturale del Novecento è legato a un aggettivo: “kafkiano”. Ovviamente derivato dallo scrittore praghese Franz Kafka – che, insieme a Samuel Beckett, può essere considerato ragionavolmente il più importante autore del Secolo breve – l’aggettivo ha assunto nell’uso un’accezione di sola angoscia, di disperazione totale e di inestricabile oppressione. Letture che, sia chiaro, hanno una loro ragion d’essere, ma non solo le sole possibili, anzi. In Kafka, come notava anche il grande critico canonico americano Harold Bloom, vi è una componente paradossale (più che surreale), che non può non assumere spesso anche toni di profondo umorismo, figlio proprio della giustapposizione di elementi apparentemente inconciliabili, come, per esempio, la totale inaccessibilità di un luogo come il Castello, nell’omonimo romanzo, e la contestuale necessità del protagonista, l’agrimensore K, di relazionarsi, su richiesta della stessa entità, con il Castello. Topi cantanti, talpe umane, condanne autoinflitte, sogni e visioni di un’America immaginata: tutto in Kafka può anche essere letto attraverso un prisma diverso, meno focalizzato sull’angoscia e più sulla risata (amara o nera finché volte, ma pur sempre risata) che anche le situazioni più assurde possono indurre. La modernità dello scrittore sta anche in questo, e sono proprio le testimonianze dei suoi amici a ricordare come, leggendo in pubblico anticipazioni de La Metamorfosi, fosse proprio Kafka a ridere fino quasi a soffocare. Con un’ennesima dimostrazione del paradosso, costante, di ogni cosa. Ma, a dare manforte a chi richiede una revisione dell’uso dell’aggettivo “kafkiano”, arriva ora anche la pubblicazione di una serie di 150 disegni dello scrittore, ritrovati – guarda caso – in una banca svizzera. Opere che, come sottolinea anche The Guardian, hanno una spensierata surrealtà e, per usare un termine caro alla letteratura italiana dopo Italo Calvino, una leggerezza che poco si addice all’immagine cupa e nera che associamo al buon Franz. Lo ha scritto anche Daniel Kehlmann su Die Ziet: è difficile pensare che la persona che ha fatto questi disegni così leggeri fosse un uomo infelice. E lo scrittore bavarese tocca anche un altro punto molto importante, quando parla dell’immagine “quasi da santo” che abbiamo attribuito a Kafka (e più recentemente ad altri scrittori complessi, ma certamente, anche essi come il boemo non votati in nessun modo a questa ipotetica santità, come David Foster Wallace, per esempio). La distorsione di questa immagine santificata è pari, se non peggiore, della distorsione applicata all’aggettivo kafkiano, e nella stessa misura fa un torto culturale all’autore. Nei disegni, che stanno per essere pubblicati in volume in Germania dalla casa editrice C.H. Beck, si trova molto umorismo, figure di uomini che ricordano i personaggi di Chaplin, non solo quelle figure sottilissime e in preda alla disperazione che, queste sì, sono state rese note da anni e spesso vengono usate per le copertine dei libri di Kafka. In qualche modo concorrevano, quei disegni, all’immagine che si era deciso di dare all’opera dello scrittore, erano conformi all’interpretazione univoca che ancora non abbiamo imparato a mettere abbastanza in discussione. Come i suoi scritti, anche il corpus di disegni, secondo le ultime volontà di Kafka, avrebbe dovuto essere bruciato dopo la sua morte. Come andò, per fortuna, è noto: l’amico ed esecutore testamentario Max Brod non accese nessun falò – anche se la Germania dell’epoca invece si stava tragicamente preparando a farli – e i romanzi, i racconti e i diari di Kafka sono diventati il fulcro di una coscienza letteraria universale. Forse oggi queste figure lievi e spesso svolazzanti dei disegni ci potranno aiutare a restituire all’autore de Il Processo la profonda leggerezza che era insita nel suo totalizzante modo di essere uno scrittore. (Leonardo Merlini)