Jon Kalman Stefansson: la poesia mi ha fatto rinascere scrittore

A Festivaletteratura, un'intervista con il romanziere islandese

SET 9, 2021 -

Libri Mantova, 9 set. (askanews) – Jon Kalman Stefansson è un romanziere islandese di grande talento: i suoi libri sono sostenuti da una lingua forte come i sentimenti e i paesaggi che va a descrivere. Ma è anche un poeta, capace di pensare in versi, senza perdere la leggerezza. “La tua figura nella mia mente come tessuta da un sortilegio antico mite e ardente come il sole lontana da mani terrene la tua figura che per la mente passa sogno biondo di primavera”. E così al Festivaletteratura di Mantova Stefansson è venuto a presentare la raccolta delle sue poesie, “La prima volta che il dolore mi salvò la vita”, edita come sempre da Iperborea. Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontarci del ragazzo che era prima di scoprirsi scrittore. “Non c’era nulla intorno a me che mi portasse verso la letteratura – ha detto ad askanews -. Quando ripenso al passato mi rendo conto che a 18 anni ero come un bambino di 10, a 20 sembrava ne avessi 15… mi ci è voluto molto tempo per arrivare alla scrittura e quando finalmente ho iniziato è stata una scoperta, improvvisamente mi si è aperto un nuovo mondo”. Un mondo che si è poi stratificato e ha preso la forma di una scrittura per molti versi totale, ma a cui Stefansson ci racconta di essere arrivato molto lentamente. “In un certo senso – ha aggiunto lo scrittore – per qualsiasi persona credo sia meglio non trovare immediatamente la propria strada. E’ molto importante anche perdersi, non sempre ovviamente, ma è una cosa buona per una persona conoscere il senso di essere sperduti, di non sapere cosa fare. Perché quando hai la fortuna di scoprire la tua strada la puoi abbracciare del tutto. Così quando finalmente ho scoperto che ero un poeta, che ero uno scrittore, è stata davvero una svolta. Come se fossi rinato”. La poesia insomma come elemento fondamentale del lavoro anche del romanziere, che costruisce il suo edificio letterario su una parola che è anche parola poetica, e forse questa è una delle spiegazioni più chiare del fascino magnetico della lingua di Stefansson. “Quando comincio a scrivere un testo in prosa – ci ha detto – siccome sono un poeta, tutta la poesia che ho in me passa nella scrittura. Non è una cosa consapevole, non è pianificato. Ma non posso fare a meno di pensare in termini poetici e questo mi permette di arricchire la mia lingua”. I sentimenti, la natura, le relazioni tra le persone e uno sguardo stupito sul mondo, sulla sua incommensurabile grandezza, l’ironia lieve, forse anche venata di tristezza. Tutto questo ritorna sia nei romanzi sia nelle poesie di Jon Kalman Stefansson. Così che non possiamo non chiedergli che cosa vede il romanziere di oggi nelle poesie del ragazzo che cresceva lentamente tre decenni fa sotto i cieli d’Islanda. “Ci vedo la giovinezza – ci ha risposto – e quando le poesie sono state ripubblicate ero felice per quel ragazzo di Reykjavík, totalmente sconosciuto, pieno di poesia che desiderava essere qualcosa. E’ stato come se avessi reincontrato un me stesso del passato, oppure come se fossi riuscito ad aiutare un fratello minore. Sono felice per lui e penso che se quel ragazzo degli anni Novanta sapesse che siamo qui in Italia nel 2021 a parlare delle sue poesia si sentirebbe imbarazzato, ma anche molto orgoglioso”. Sembra un racconto di Borges, in cui un uomo ritrova il proprio doppio, oppure sembra semplicemente la vita con, per citare Perec, le dovute istruzioni per l’uso. Imperfette, ovviamente, ma profondamente umane e letterarie. Come una poesia che non riusciamo a scordare e continuamente ritorna. (Leonardo Merlini)