Il senso della fine di qualcosa: Damien Hirst, instagram e noi

L'artista racconta in video la sua antologica, quasi un congedo?

FEB 8, 2021 -

Milano, 8 feb. (askanews) – Qualcosa di pazzesco accade davanti ai tuoi occhi, lo vedi succedere, lo senti succedere. Poi passa e scompare per sempre. Potrebbe sembrare l’inizio di un racconto vagamente filosofico, ma, a ben guardare, è semplicemente quello che accade in ogni momento di quella cosa inestricabile che siamo soliti chiamare “vita”. In ogni singolo momento. Il gioco, quello vero, ha a che fare con il modo in cui poi gestiamo queste scomparse, con la narrazione che ne facciamo, con l’idea (o le idee) di tempo che decidiamo di sposare e su cui costruiamo il nostro presente, ossia la nostra permanenza dentro uno spazio che possiamo chiamare contemporaneo.

La curatrice della Tate Modern Ann Gallagher, in occasione della retrospettiva su Damien Hirst del 2012, ha scritto che la sua arte “è un’esplorazione senza compromessi della fragilità dell’esistenza”. Da questa esplorazione, fatta di clamore e caos così come di stupore, provocazione e genialità, è nata una mitologia culturale imbevuta di denaro, tanto denaro, e di una popolarità globale che è stata, in alcuni momenti, senza precedenti. “La celebrità conquistata da Hirst rappresenta non il risultato della sua arte, ma il suo strumento centrale”, ha notato Thomas Crow, professore alla New York University e in questa frase, che guarda, rinnovandola, alla lezione di Andy Warhol, c’è una lettura estremamente precisa delle dinamiche che oggi guidano l’utilizzo culturale (e non solo) dei social media. E su instagram l’artista britannico, normalmente poco avvicinabile dalla stampa, da settimane sta raccontando la sua retrospettiva, allestita nella sua galleria londinese. Dove il pronome personale assume, anche qui, il ruolo di “strumento centrale”.

End of a Century è il titolo dell’esposizione antologica nella Newport Street Gallery ed è un titolo giusto, che ammicca alla dimensione di fragilità e impermanenza di cui si diceva e, probabilmente, fa anche un (magari molto implicito) esercizio di autoironia sulla parabola dello stesso Hirst, che da tempo non sta più ai vertici delle classifiche del mercato o del “power”, nel Sistema dell’arte, ma che resta, comunque, l’artefice di un progetto poderoso (tanto culturalmente quanto economicamente), come quello allestito a Palazzo Grassi a Venezia nel 2017, forse il suo ultimo grande capolavoro di vera impossibilità, Treasures from the Wreck of the Unbelievable.

“Non riesco a inventarmi le cose – ha detto Hirst in un’intervista del 1992 -. Penso che ci siano così tante cose fantastiche nella realtà che alla fine non è necessario inventarsele”. La mostra londinese, in un certo senso, è la manifestazione concreta di questa affermazione (e in qualche modo anche una interpretazione a priori di quello che, 25 anni dopo, avremmo – non senza uno sforzo – capito dell’esposizione veneziana). E la stessa idea di una cosa che potremmo chiamare genuinità, oppure presa diretta (sapendo bene che nessuna delle due parole ha veramente mai a che fare con la logica profonda di instagram) sembra sostenere il progetto di divulgazione in video e in prima persona che l’artista sta facendo su IGTV, raccontando per capitoli e stanze i vari lavori esposti e, spesso, le circostanze che li hanno ispirati.

Dentro c’è tutto il mondo della superstar Damien Hirst, mancano ovviamente i pezzi totalmente unici (e folli, quelli decisivi quindi) come lo squalo originale di The Physical Impossibility or Death in the Mind of Someone Living del 1991 o il teschio di diamanti For the Love of God del 2007, ma la narrazione resta completa, confortevole e disturbante quanto basta. E poi c’è il corpo dell’artista, il suo volto, il suo modo di parlare, vestire, camminare. Sono questi ultimi aspetti quelli che – vuoi per il fascino della celebrità, vuoi per la percentuale di sprezzatura working class che mantengono – colpiscono di più, che rendono magnetici i video e che, in un’immagine che sembra uscire direttamente dalla penna dello scrittore Roberto Bolaño, è come se, pur in tutto questo mettere in mostra, in realtà volessero occultare un segreto più grande, nascosto in piena luce. Quello della fine di una stagione, di un percorso artistico, di una avventura che, comunque la si giudichi, è stata rilevante e decisiva negli esiti, più nell’immaginario collettivo (e popolare, termine a cui Hirst ricorda sempre di tenere molto) che non nelle casse delle case d’aste, dei galleristi e dello stesso artista.

I video di End of a Century (e il titolo in qualche modo ammette e anzi sottolinea la transitorietà di ogni esperienza) sembrano essere proprio il momento in cui ti accorgi che quella cosa pazzesca che hai visto passare davanti ai tuoi occhi, quella cosa così incredibile, è già scomparsa. Rimane la sua ombra, ossia la celebrità, parola che, con un salto in diagonale, rimanda anche al termine celebrante. E il celebrante-celebrità è esattamente l’unico che può mettere in scena in modo credibile una sorta di auto funerale, e pure qui, le parole giocano con noi: una sorta di auto celebrazione. La celebrità, il celebrante, la celebrazione. Tutto torna, tutto scorre. Passa e va.

(“Tu ami le parole” ha detto Sir Nicholas Serota a Hirst in una conversazione per la Tate. “Io le uso molto – ha replicato l’artista – ma credo che non mi piacciano particolarmente”. È bello pensare che, dato il carattere pubblicamente guascone, Hirst abbia volutamente mentito, proprio per alimentare il gioco intorno alla sua arte, che molto ha costruito grazie ai titoli delle opere e delle mostre).

Ancora una cosa: ragionare su ciò che abbiamo visto succedere e finire significa ragionare sul tempo. E il tempo, così come la fine, riguarda tutti noi. In un certo senso l’ultimo colpo di Damien Hirst potrebbe essere proprio quello di averci messo di fronte uno specchio della transitorietà inevitabile, la nostra. Dopo tante vetrine, un grande specchio, solo apparentemente invisibile. Il tutto nella cornice rassicurante dello schermo del nostro smartphone. Insomma, il senso della fine. E, come cantava Francesco De Gregori, nessuno si senta escluso.

(di Leonardo Merlini)