Oltre il record di Koons: la scomparsa dell’opera nel desiderio

Il mercato dell'arte, l'ambivalenza, il capitalismo e noi stessi

MAG 20, 2019 -

Milano, 20 mag. (askanews) – Il ‘Rabbit’ di Jeff Koons è diventato pochi giorni fa l’opera di un artista vivente più pagata di sempre: 91,1 milioni di dollari, battuti all’asta da Christie’s. Datato 1986, il coniglietto di Koons è una scultura in acciaio inossidabile alta poco più di un metro che, come ha scritto il critico Francesco Bonami, l’artista ha trasformato da ‘giocattolo apparentemente triviale’ in ‘un gioiello dalla superficie lucida in grado di specchiare il mondo con i suoi desideri e le sue contraddizioni. Come in tutte le sue opere, Koons rimanda alla superficie delle cose, uno spazio spesso riflettente sul quale lo sguardo dello spettatore rimbalza nuovamente verso se stesso’.

La notizia dell’asta, a proposito di riflessi, rimanda all’immagine del mercato dell’arte che questo nuovo record in qualche modo riassume, un mercato che – come certificato dal report di Art Basel e UBS – nel 2018 ha visto un giro d’affari da 30 miliardi di dollari, quando nel 2009 si era fermi a 12 miliardi. Un’espansione che, però, ha proceduto in parallelo, nel decennio seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, con una ulteriore restrizione dei partecipanti alla partita, ormai – lo ha scritto Allison Schrager in una analisi pubblicata sul New York Times – giocata attivamente solo dai miliardari super-ricchi, che sono pari allo 0,01% della popolazione mondiale (i milionari, attori protagonisti fino a pochi anni fa, erano ben l’1%, la contrazione statisticamente è clamorosa).

Tutto ciò, compreso un contesto globale nel quale le gallerie diminuiscono e solo i pesi massimi sembrano essere in grado di prosperare, oltre che di dettare il gusto, fa sì che Koons diventi l’artista perfetto per certe ambizioni, ma, al tempo stesso, anche una sorta di ‘vittima’ del sistema, nel senso che il prezzo e la sottostante riflessione sulla mutazione antropologica del sistema finiscono per far passare in secondo piano la rilevanza del lavoro dell’artista, in un certo modo battuto dalla sua stessa fama. E anche questa è una lettura incompleta, che non tiene conto di ciò che, soprattutto negli anni ’80, Jeff Koons ha rappresentato. ‘Qualcuno pensa che le mie opere siano kitsch – ha detto l’artista al critico Robert Storr in una intervista datata 1990 – ma io non ho mai visto le cose in questo modo. Ciò che in realtà sto dicendo alle persone è di non cancellare il proprio passato, di fondere insieme tutto quel che sono e di andare avanti’. In sostanza il messaggio era: non dimenticatevi che siete stati bambini. ‘Le mie opere – ha aggiunto Koons – dicono semplicemente alle persone di non rifiutare una parte di sé, di tener conto della propria storia’. Da qui il ‘Rabbit’ milionario, ma anche i celebri ‘Baloon Dog’ o il cagnolino gigante fatto di fiori (‘Puppy’) che accoglie i visitatori in un altro luogo globale del sistema del contemporaneo come il Guggenheim di Bilbao.

Accanto a tutto questo, e considerando che tutta la parte di erotismo del lavoro di Koons afferisca comunque a questa sfera ‘magica’ (del resto è difficile considerare il matrimonio con Cicciolina qualcosa che esula da un universo magico), restano alcuni dati di fatto: il primo è il personaggio Koons (sempre a Storr ha spiegato che esiste, ma che non è ‘il prodotto finito’), che somiglia terribilmente, stessa sensazione che si prova incontrando lo scrittore Ken Follett, a un amministratore delegato di una compagnia globale overt the top; il secondo è che, negli ultimi anni, il mercato aveva cominciato a trascurarlo, come accade periodicamente con Damien Hirst, tanto da portare alla chiusura dello Studio di New York. Ma Jeff Koons è ancora qui e il suo coniglio da record ne è la prova. Però esattamente la prova di cosa, non è chiarissimo. E allora abbiamo provato a chiedere a dei protagonisti del sistema dell’arte che cosa hanno provato leggendo la notizia del record da Christie’s, per tentare di guardare il fenomeno Koons, in un certo senso, dall’interno.

Emiliano Ponzi, artista visuale e illustratore tra i più apprezzati al mondo, con una stretta relazione con la città di New York, ci ha parlato della sensazione da ‘Lo potevo fare anch’io’, celebre titolo di un saggio ancora di Bonami sull’arte contemporanea. Ma poi la riflessione di Ponzi si è fatta tagliente: ‘Nel 2014 – ha detto l’artista ad askanews – ho visto una bellissima retrospettiva di Koons al Whitney Museum, mi sono fatto fotografare davanti a una delle sue opere più belle, innovative e genuine che Instagram mi ha cancellato dopo 10 minuti (bravi, vuol dire che alla fine quando volete gli algoritmi li sapete scrivere): Ilona Staller penetrata analmente dall’ex marito Jeff. ‘Questo non lo potevo fare anche io’, ha richiesto ingredienti che non avevo: una moglie pornostar e un taglio di capelli con ciuffo anni 80 tanto per dirne un paio. Due considerazioni e un consiglio: Mi chiedo se sia più pornografica una scena di penetrazione kitsch oppure aver svestito l’arte contemporanea dal suo senso più intimo di ricerca visibile e condivisibile e averla vestita da CEO di una grossa compagnia quotata in borsa’.

‘E’ difficile astenersi dall’uso del buon senso che ci fa percepire il limite di questo modello di capitalismo mercificato (come una camicia che dopo molti lavaggi è diventata stretta) – ha concluso Ponzi – quando un oggetto in se banale il cui unico valore aggiunto è lo storytelling viene venduto a 91,1 milioni di dollari’.

Più pragmatico, da tecnico, è invece l’approccio scelto da Matteo Gardonio, direttore di dipartimento per la casa d’aste Il Ponte. ‘E interessante constatare – ci ha detto – anche la forza di ‘influencer’ esercitata da Koons che, rivelando la chiusura del proprio studio a Manhattan con la fine del 2019, ha certamente fatto impennare la valutazione del suo Rabbit. Ovviamente segnalo come alcuni artisti appaiano, nel mercato, dei classici oltre il tempo vissuto: Leonardo (vero o presunto), Caravaggio (vero o presunto), Monet appena battuto con record a 110 milioni, Warhol e ora Koons. Da storico dell’arte mi interessa la ricerca e l’evoluzione di questi artisti, senza soffermarmi troppo sul pezzo singolo ma, da chi analizza il mercato, lo trovo un buon viatico per ogni singolo dipartimento; dall’Antico al Moderno, passando per l’Ottocento, ci sono dei classici destinati a fare – quasi – sempre bene’.

Koons come fenomeno di turbocapitalismo e come classico di perenne successo: come si vede l’artista riesce a essere perfettamente descritto in molti modi tra loro contrastanti, riesce a essere l’ossimoro di se stesso (e qui viene da dare credito a Bonami – ultima volta che lo citiamo, promesso – quando sostiene che ormai il Jeff Koons che incontriamo è solo una versione robotica dell’originale degli anni 80). Ma per dare senso a un ossimoro serve soprattutto una componente che faccia da collante, e questa è il desiderio. Tema su cui si è focalizzata Ginevra Bria, curatrice tra le più brillanti sulla scena del contemporaneo in Italia, partendo da un parallelo tra Koons e nientemeno che Marcel Duchamp (associati anche in una mostra di Massimiliano Gioni a Città del Messico).

‘Sebbene separati da decenni, Duchamp e Koons – ci ha spiegato Ginevra Bria – hanno messo in discussione la funzione degli oggetti e il fascino delle merci mentre sviluppavano pensieri separati ma complementari di desiderio e gusto, proponendo nuovi modi di pensare l’arte e il sé, attraverso la composizione seriale di figure seducenti’. Entrambi ‘condividono una sorprendente preoccupazione nell’esplorare i modi in cui gli oggetti quotidiani possono evocare il desiderio e il progetto, o riflettere, la sessualità. Nella traiettoria dei loro oggetti e riproduzioni dal readymade alla replica, entrambi gli artisti scoprono un’erotica delle cose’.

‘Come ricorda René Girard – ha aggiunto la curatrice dello spazio milanese FuturDome – tra gli uomini e i loro desideri non ci sono vere differenze, e poi non è neppure sufficiente pensare in termini di differenze che si scambiano o che si spostano o derivano. E come aveva intuito Duchamp, è il desiderio stesso il responsabile della propria evoluzione. E’ lui a procedere verso la sua caricatura, il desiderio utilizza sempre ai propri fini il sapere che acquisisce di se stesso, ponendo la verità al servizio della menzogna delle cose. Il desiderio, come il Rabbit di Koons, diventa portatore di luce, ma di una luce messa al servizio della sua stessa oscurità, dove avviene la scomparsa dell’oggetto. Questa nullificazione appartiene alla tendenza del desiderio a diventare la propria caricatura, a proclamare la sua verità: la prevalenza del modello mimetico sull’oggetto’.

Questo strano percorso intorno a Jeff Koons e al suo coniglio ci ha portato alla scomparsa dell’oggetto d’arte, che tende a diventare puro desiderio. A ben guardare tutti, Ponzi, Gardonio e Bria, sono arrivati, con percorsi, contenuti e stili diversi, a toccare questo punto. Nel momento della sua massima visibilità, l’oggetto scompare, offuscato dalle troppe luci sul palco. E anche di oltre 91 milioni di dollari resta – si fa per dire – solo una sorta di ‘traccia fantasma’. Forse è una chiusa troppo grunge (ma il grunge è morto dal 1994, non è vero?), che però aiuta a capire come un’opera figurativa del 1986, molto lontana dalle ricerche più interessanti dell’arte di oggi, feticcio in un’epoca che tenta con ogni sforzo di dimenticare i feticci (o, meglio, di cambiare loro natura in modo radicale), possa in qualche modo essere ancora un testimone credibile del nostro tempo. Che non è solo il tempo del mercato, sebbene attraverso il mercato noi si provi a capirlo, questo tempo fattosi desiderio.