Impianti dentali, ecco nuovo test che prevede infezioni

Che rischiano di farli fallire anche in assenza di sintomi

NOV 10, 2022 -

Roma, 10 nov. (askanews) – Sono oltre 2 milioni gli impianti dentali eseguiti ogni anno in Italia, che, pur rappresentando una efficace soluzione terapeutica, rischiano di fallire nel tempo a causa dei batteri della placca dentale. Entro i primi mesi del 2023 sarà disponibile una nuova arma per prevenire le due malattie infiammatorie più diffuse, la mucosite e la perimplantite che colpiscono, rispettivamente, il 50% e il 15% degli impianti dentali, rischiando di farli saltare. E’ infatti in arrivo un nuovo test basato sull’analisi di un campione di placca prelevata intorno all’impianto in grado di prevedere il rischio che la mucosite, una condizione completamente risolvibile, progredisca verso la più grave perimplantite. “Le malattie infiammatorie dei tessuti intorno agli impianti dentali rappresentano un problema estremamente sentito dalla comunità odontoiatrica, per il continuo aumento della loro incidenza e per l’elevato problema socio-economico rappresentato per i pazienti e gli stessi dentisti che si trovano a doverle gestire -dichiara Nicola Marco Sforza, presidente SIdP -. L’introduzione di un nuovo test eseguito alla poltrona del dentista attraverso un semplice tampone, può rappresentare uno strumento integrativo del sondaggio e della radiografia dell’area dell’impianto, contribuendo a definire ‘una firma microbica’ riproducibile per le malattie perimplantari. Una volta a disposizione, esso potrebbe essere utilizzato sui pazienti a distanza di un anno dal carico dell’impianto, il tempo necessario per l’adattamento dei tessuti e consentire al dentista di intervenire precocemente, prima che l’impianto si ammali, scegliendo in anticipo la terapia più adatta ed eventualmente l’antibiotico migliore in caso di infezione, così da individualizzare ulteriormente le cure per il mantenimento dell’impianto”. Alla base del nuovo test diagnostico uno studio italiano sul microbioma, cioè l’insieme di microrganismi che convivono nel cavo orale, fondamentali per la salute di denti e gengive. La ricerca durata due anni etuttora in corso, la cui prima parte è stata pubblicata sulla rivista Biofilms and Microbiomes, edita da Nature, e condotta dai ricercatori del Dipartimento di ricerca CIBIO dell’Università di Trento, è stata coordinata, tra gli altri, da Cristano Tomasi dell’Università di Goteborg e socio attivo della SIdP. “Lo studio sul microbioma ha ad oggi coinvolto 1.200 pazienti e raccolto 2.300 campioni salivari e di placca batterica, da cui sono stati identificati ben 60 specie batteriche finora sconosciute, alcune delle quali sarebbero coinvolte nelle due malattie infiammatorie più comuni che rischiano di far fallire l’impianto”, spiega Tomasi -. Grazie soprattutto a tecniche di sequenziamento del DNA ad altissima risoluzione (tecniche metagenomiche) siamo riusciti a decifrare nel dettaglio il microbioma della placca batterica associato agli impianti a rischio. Abbiamo infatti identificato – prosegue – i microbi associati alla mucosite che sembrano essere i principali responsabili della progressione della malattia verso la più grave perimplantite”, Grandi novità, infine, riguardano anche la chirurgia parodontale e implantare, specialmente quella che richiede la ricostruzione dei tessuti duri e molli andati perduti a causa di forme avanzate di parodontite. “L’identificazione e lo sviluppo di nuove molecole nell’ambito di ricerche precliniche e cliniche iniziali, sembrerebbero rappresentare una nuova risorsa a livello locale in chirurgia rigenerativa parodontale e implantare – spiega Sforza – consentendo una più rapida guarigione della ferita e modulando favorevolmente la rigenerazione ossea e dei tessuti molli. In particolare alcuni polinucleotidi e l’acido ialuronico, sembrerebbero comportarsi come veri e propri attivatori della rigenerazione tissutale e del circolo vascolare, stimolando soprattutto la crescita dei fibroblasti, cioè delle cellule del tessuto connettivo che producono le componenti della matrice extracellulare: grazie all’utilizzo di queste molecole, spesso combinate a innesti di osso eterologo che funziona da sostegno, il cosiddetto “scaffold”, possiamo ricostruire il tessuto osseo ‘su misura’ per il paziente. Naturalmente è necessario la conferma di queste osservazioni sperimentali, con ulteriori studi clinici controllati, soprattutto per comprendere i reali vantaggi aggiuntivi di questi biomateriali alle tecniche chirurgiche tradizionali”.