Taranto, il frate che si batte per restituire il mare alla città

Nella città dell'ex Ilva la Settimana sociale dei cattolici

OTT 23, 2021 -

Chiesa Taranto, 23 ott. (askanews) – C’era un tempo in cui il “mar piccolo” davanti a Taranto era un modello per il Mediterraneo, la città viveva in simbiosi con l’acqua, la pesca era regolamentata rigorosamente per evitare che gli equilibri ambientali venissero stravolti, e i francescani dei conventi di questa zona sfruttavano i fiumi che sfociavano a mare per lavare i saii dei monaci di tutto il Mezzogiorno d’Italia. Oggi un loro confratello, fratel Francesco Zecca, si batte per restituire alla città il mare minacciato da oltre un secolo di attività industriali, da ultimo le acciaierie, che hanno inquinato le acque, hanno sottratto marinai e cura del mare, e hanno prodotto una ricchezza che non ha migliorato la vita dei suoi abitanti. Non è un caso che la Conferenza episcopale italiana abbia scelto Taranto come sede della Settimana sociale che si svolge da giovedì a domenica. Nella convinzione, come ha scritto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, che “tutto è connesso”, ambiente, società e lavoro, e che la Chiesa può dare un contributo significativo all’affermazione di una “ecologia integrale”. “Taranto negli ultimi cento anni ha perso il legame con il mare. Non vive più di mare. Ha bisogno di recuperare la vocazione profonda della città che è il legame con il mare”, afferma il coordinatore nazionale dell’ufficio Giustizia, Pace e Integrità del Creato dei Frati Minori. I motivi che hanno stravolto il sistema economico e ambientale tarantino sono molti. C’è la Marina militare che fin dall’ottocento occupa una lunga fascia di costa, dove un tempo cresceva un bosco rigoglioso, ancora oggi sottratta alla cittadinanza da un muro che corre lungo uno dei due lungomari. C’è, poco oltre, l’Aviazione militare. La presenza militare ha in realtà garantito che la costa venisse preservata, ma i cantieri hanno peggiorato la situazione del mare, e le navi in disarmo hanno non di rado deturpato il paesaggio. L’arrivo dell’industria, soprattutto, quella militare prima, poi l’Italsider (dal 1988, Ilva), e ancora la raffineria Eni, ha attratto nel corso dei decenni gli abitanti, dando loro lavoro, ma depauperando l’attività della pesca. E lasciando il mare, come effetto indiretto, meno presidiato e curato. “A un certo punto il mare è diventato una discarica”, spiega Stefano Vinci, professore all’università di Bari, che con il francescano guida visite alla scoperta dei drammi e delle speranze di Taranto. “La città volta le spalle al mare nel momento in cui sceglie l’industria, sceglie una vocazione industriale, e volta le spalle alla tradizione della pesca della città, una tradizione che era radicata fin dall’antichità. Ad esempio nel medioevo c’era un regolameto che regolamentava quelli che erano le varie fasi della pesca, i periodi dell’anno in ci pescare, le zone in cui pescare, gli strumenti con cui pescare. Però la città a un certo punto, soprattutto a metà del novecento, volta le spalle al mare e sceglie una vocazione industriale. I pescatori lasciano le barche per andare a lavorare in industria. Molti fanno una scelta, magari in quel momento più redditizia, di scegliere di diventare operai e avere uno stipendio fisso e abbandonare le incertezze del pescato quotidiano, ma così tradendo una tradizione millenaria della città”. Il dramma, per la città di Taranto, è che la ricchezza prodotta non sembra incidere positivamente sulla città, come dimostra il centro storico ancora oggi poco manutenuto e segnato da carenze strutturali. Tutte queste industrie, spiega il docente del dipartimento Jonico in sistemi giuridici ed economici del Mediterraneo, “creano una ricchezza che non si riversa sul territorio, che non investe nel territorio, ma anzi deturpa e sfrutta il territorio di tutto quello che può dare, ma non ricambia quello che il territorio gli ha dato”. Il “mare piccolo” davanti a Taranto nel corso degli anni soffre. Delle idrovore prendono l’acqua dal tratto di mare antistante la città per raffreddare gli impianti. Inizialmente le polveri rosse che si levano dallo stabilimento delle acciaierie si deposita su tutta la città, nonché sulle acque marittime, e crea drammatici problemi di salute nella popolazione. Nel corso degli anni vengono introdotti capannoni che limitano il problema. Il sistema biologico, però, resiste. Nel mare davanti alla città, grazie in particolare alle sorgenti d’acqua dolce che sboccano dalla crosta sottomarina (citri), si coltivano ancora oggi le caratteristiche cozze tarantine, ma anche le ostriche, vendute dai banchi del pesce ogni mattina, e si possono trovare tartarughe e banchi di cavallucci marini. Una fauna che è un segno di resistenza e di speranza. Taranto, è la convinzione di fratel Zecca, ha bisogno di recuperare il legame con il mare. “Per recuperare questo legame”, spiega il francescano, “c’è bisogno di un cambio di prospettiva, di un cambio di sguardo, che non è solo economico, culturale, sociale, ma è soprattutto spirituale. L’ecologia integrale è soprattutto una rivoluzione spirituale che permette un cambio di prospettiva, un cambio di sguardo, a partire da uno sguardo contemplativo della realtà. E allora partire da questo sguardo sul paesaggio, tornare a meravigliarsi per la propria terra, ecco come si dice anche nel film di Peppino Impastato ‘Cento passi’, prendersi cura della bellezza permette di indignarsi quando questa viene detrupata. Qui – conclude il religioso – c’è bisogno di recuperare lo sguardo sulla bellezza della propria terra”.