Un anno di Covid: 21 febbraio 2020, il giorno in cui tutto cambiò

Dalla "notte zero" al primo morto: un anno fa il virus in Italia

FEB 21, 2021 -

Milano, 21 feb. (askanews) – Era un venerdì di sole, in Lombardia, il 21 febbraio del 2020. Già da tempo si parlava di nuovo coronavirus, di chiusure e misure di contenimento, ma era un discorso legato a Wuhan, alla Cina e, al massimo, all’Estremo oriente. Insomma, era una storia che non ci riguardava più di tanto, o almeno così credevamo. Finché la mattina del 21 febbraio di un anno fa l’Italia si sveglia e scopre che quel virus le era entrato in casa. Per la verità già il 30 gennaio avevamo distrattamente appreso che due turisti cinesi erano risultati positivi a Roma costringendo l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a dichiarare l’emergenza sanitaria nazionale. Ma la data del 21 gennaio è destinata inevitabilmente a diventare uno spartiacque, a segnare per sempre un prima e un dopo dal quale non siamo ancora usciti.

La notizia del primo caso autoctono di Covid-19, in realtà, era arrivata nelle redazioni la sera prima, il 20 febbraio, ma troppo tardi per catalizzare l’attenzione degli italiani. E’ il giorno dopo, dunque, quando anche l’Istituto Superiore di Sanità conferma ufficialmente il caso di Codogno e del ‘Paziente 1’ che si inizia a prendere coscienza che le cose sono cambiate. Da quel momento, in un susseguirsi rapido di eventi, l’Italia diventa il Paese europeo più colpito dal virus e la nostra vita comincia a cambiare, probabilmente per sempre.

‘Un 38enne italiano è risultato positivo al test del coronavirus. Sono in corso le controanalisi a cura dell’Istituto Superiore di Sanità. L’uomo è ricoverato in terapia intensiva all’ospedale di Codogno i cui accessi al Pronto Soccorso e le cui attività programmate, a livello cautelativo, sono attualmente interrotte. Le persone che sono state a contatto con il paziente sono in fase di individuazione e sottoposte a controlli specifici e alle misure necessarie’. Così comunicava alle 1.04 del 21 febbraio l’allora assessore al Welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera. In quel primo dispaccio d’agenzia, dietro una terminologia necessariamente burocratica, erano già descritti gli scenari che avremmo imparato a conoscere di lì in avanti.

Ma, restando a quella notte, in un certo senso per molti di noi l’ultima notte del vecchio mondo, è nell’ospedale di Codogno, cittadina con poco più di 15mila abitanti del Lodigiano, sconosciuta ai più fino a quel momento, che si comincia a fare i conti con il contagio, le evacuazioni, i tamponi, gli isolamenti. E con la paura per una polmonite anomala, con decorsi di rapido peggioramento di cui ancora, nei fatti, si continua a sapere ben poco: chi guidava il pronto soccorso della città nel Lodigiano in quei drammatici momenti ha parlato espressamente di una lotta con ‘un virus sconosciuto’. Sono ore in cui sia il personale sia i malati vengono potenzialmente a contatto con il Covid, sono ore nelle quali i primi due casi ufficialmente riconosciuti vengono intubati, in condizioni critiche e ancora non esistono linee guida generali per affrontare l’emergenza. Si era inconsapevolmente di fronte una crisi sanitaria esplosiva, che travolge la Lombardia dopo la Cina, 20 giorni prima che l’OMS dichiari ufficialmente la pandemia.

La mattina del 21 febbraio, quel venerdì assolato, le cose cominciano a precipitare e i numeri del contagio salgono. A Codogno come centro dell’epidemia si unisce Castiglione d’Adda. Alle 10.30 la Regione Lombardia comunica che sono ‘confermati altri due casi’ e dirama un ‘invito, precauzionale a stare a casa e non recarsi nei pronto soccorso’. ‘Si invitano tutti i cittadini di Castiglione d’Adda e di Codogno, a scopo precauzionale – aggiunge Gallera – a rimanere in ambito domiciliare e a evitare contatti sociali. Per coloro che riscontrino sintomi influenzali o problemi respiratori l’indicazione perentoria è di non recarsi in pronto soccorso, ma di contattare direttamente il numero 112 che valuterà ogni singola situazione e attiverà percorsi specifici per il trasporto nelle strutture sanitarie preposte oppure a eseguire eventualmente i test necessari a domicilio’. Anche qui, la storia in qualche modo è già stata scritta. Il nostro mondo, quello domestico di tutti i giorni sta cambiando, con una rapidità che, in quel momento, probabilmente, non abbiamo potuto cogliere.

Alle 16.30 il nuovo bollettino regionale parla di sei casi confermati di Covid-19 in Lombardia. Si cerca di tracciare i contatti del ‘Paziente 1’, che tutti impariamo a conoscere come ‘il 38enne di Codogno’ – si chiama Mattia Maestri, lo abbiamo visto venirne fuori e oggi dice di volere solo vivere e dimenticare – e dal Pirellone indicano 149 contatti accertati. Nel complesso oltre 200 persone risultano essere state a contatto con i casi confermati e per loro la Lombardia dispone l’isolamento. ‘Le misure che assumiamo – dichiara il presidente Fontana – sono gli unici mezzi per evitare la diffusione del contagio e non devono essere viste come qualcosa di drammatico e preoccupante. E’ dimostrato che questo sistema contribuisce in modo sostanziale a bloccare la diffusione. Non dobbiamo diffondere il panico ma le misure, che potremo rivalutare dopo la riunione con il ministro Speranza, che sta arrivando, sono fondamentali per il bene della comunità’.

Qui occorre aprire una piccola parentesi: è stato accertato nei mesi successivi che in realtà il nuovo coronavirus mutato circolava in Italia da tempo, secondo l’Istituto dei Tumori di Milano almeno da settembre 2019, in una forma definita ‘silente’. I casi del Lodigiano e di Vò Euganeo quindi sono forse erroneamente definiti ‘i primi’. Ma come il senno di poi lascia il tempo che trova, così anche le scoperte di poi in quei momenti non le potevamo conoscere ancora. La storia si scrive alla fine, la cronaca è un racconto in divenire. In questo caso impetuoso.

Così, sempre in quel difficilissimo 21 febbraio dello scorso anno arriva il primo morto per Covid in Italia: è un pensionato di 78 anni, che però non muore in Lombardia, bensì in Veneto, nel comune padovano di Vò Euganeo, che insieme alle cittadine intorno a Lodi è il secondo focolaio di coronavirus nel nostro Paese. Anche qui scattano le chiusure, decise dal governatore Zaia, e, se per i casi lombardi si pensa a collegamenti con la Cina, a Vò invece le persone coinvolte non hanno alcun legame con l’oriente. ‘Lavoriamo anche sul fronte dell’eventuale necessità di una struttura dedicata a eventuali contagiati, perché non sappiamo qual è l’entità del contagio’, dice Zaia alla stampa. La vittima padovana sarà la prima di una serie di decessi che, al 20 febbraio 2021, sono ufficialmente 95.486.

Torniamo a un anno fa e torniamo in Lombardia: alle 19 i casi confermati diventano 14. Il ministro Speranza arriva a Milano e insieme alla Regione vengono firmati gli atti che istituiscono le prime zone rosse. ‘Il presidente Fontana e il ministro Speranza – recita il comunicato ufficiale di Palazzo Lombardia – hanno firmato un’ordinanza con misure molto precise che riguardano l’area in cui abitano e si spostano le persone che sono state individuate come positive. I comuni sono: Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Maleo, Fombio, Bertonico, Castelgerundo, Terranova dei Passerini, Somaglia e San Fiorano’. Blocco totale di accessi e uscite anche per Vò Euganeo. Ancora una volta, dietro la terminologia apparentemente neutrale dei comunicati, possiamo, oggi, rileggere la nostra storia in prospettiva, vederne delineati gli sviluppi, ricordare lo stupore, la paura e la costante inquietudine di quei momenti nei quali la regione che più di ogni altra voleva incarnare una certa idea di sviluppo e di crescita, si è trovata a vedere schierate le forze armate, i cordoni sanitari, le tute anti contagio. Poche ore dopo i treni regionali avrebbero annunciato la soppressione di alcune fermate nel Lodigiano e le uscite autostradali sarebbero state chiuse. Un nuovo presente cominciava a delinearsi, oggi è chiaro, ma un anno fa si brancolava alla ricerca di un senso che, sul momento, come era normale che fosse, era catalizzato esclusivamente dall’aspetto emergenziale. L’incertezza era totale e le settimane successive, con diversi repentini cambiamenti di atteggiamento politico di fronte alla crisi, lo avrebbero dimostrato. Il lockdown generale sarebbe arrivato il 9 marzo, 18 giorni dopo la ‘notte zero’ nel Lodigiano.

(di Leonardo Merlini)