Hikikomori, così il Gruppo Abele li accompagna dentro al mondo

Milena Primavera: operiamo per riaprire le porte delle loro stanze

DIC 15, 2020 -

Roma, 15 dic. (askanews) – Smettono di uscire di casa, di andare a scuola, di frequentare altre persone. Si chiudono nella propria stanza e iniziano a condurre una vita isolata, invertendo il ritmo sonno-veglia, interagendo il meno possibile anche con i familiari conviventi e mantenendo una connessione con il mondo esterno solo attraverso il web.

Sono giovani, in media ventenni, rifuggono dai social sono gli Hikikomori, termine coniato in Giappone dove il fenomeno si è sviluppato negli anni ’90, derivato da ‘hiko’ (tirare indietro) e ‘komoru’ (isolarsi), che in Italia si è tentato di tradurre con ‘ritirati sociali’. Askanews ne ha parlato con Milena Primavera, psicologa, responsabile del progetto ‘Fuori di casa, dentro al mondo. Progetto di inclusione sociale rivolto a ragazzi ritirati sociali (Hikikomori)’ del Gruppo Abele a cui l’Accademia dei Lincei ha assegnato a novembre il Premio Antonio Feltrinelli per un’impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario (del valore di 250mila euro), avendo considerato sia l’operato storico del gruppo sia l’originalità del progetto.

Dottoressa Primavera, quanto è diffuso il fenomeno Hikikomori? ‘Data la natura relativamente nuova e comunque poco classificabile del fenomeno, è difficile disporre di dati attendibili sulla sua diffusione. Saito Tamaki, primo studioso del problema in Giappone, aveva ipotizzato la cifra di un milione di persone nel Paese che vivevano questa condizione: per questo si è poi parlato di loro come del ‘Missing Million’, una quota significativa della popolazione che manca all’appello della vita sociale. Nei paesi asiatici ma anche in quelli occidentali sembra farsi strada l’idea che una condizione simile a quella nipponica sia sempre più diffusa’. ‘Per quanto riguarda il nostro Paese, – prosegue la psicologa – le stime proposte dall’Associazione Hikikomori Italia parlano con approssimazione di decine di migliaia di ragazzi, ma al momento non esiste uno studio approfondito in grado di verificare i dati parzialmente raccolti. Da qualche anno – precisa Milena Primavera – si sta attivando un interesse sempre maggiore rispetto al fenomeno. In letteratura esistono contributi che aiutano a coglierne la complessità e mettono in risalto gli aspetti clinici ma soprattutto antropologici e sociali. Tra i lavori italiani più significativi quello condotto dall’Istituto Minotauro di Milano’.

Sulla base degli studi disponibili, è possibile tracciare una sorta di identikit dei ragazzi che vivono questa condizione? ‘È possibile ma pericoloso. Chi studia il fenomeno cerca di ravvisare degli elementi comuni, sia a livello di dati anagrafici che di comportamenti. Ma quando provi ad avvicinare questi giovani, ti accorgi che ognuno ha una storia a sé, proprie peculiarità a livello caratteriale, di interessi, di vissuti, del porsi in relazione agli altri: sono questi i fattori da cogliere se si vuole aiutarli, molto più che le possibili attinenze a un ‘modello clinico’ prestabilito. Possiamo comunque dire che la maggior parte degli Hikikomori sono maschi, in età adolescenziale o giovanile e vengono da famiglie senza gravi problemi economici’.

Si tratta di una patologia? ‘C’è una fragilità che si esprime attraverso dei sintomi. Ma il ritirarsi dal mondo è un comportamento e una condizione esistenziale caratterizzati da una situazione di stallo, che può talvolta combinarsi con patologie di tipo psichiatrico, ad esempio i disturbi alimentari e i disturbi d’ansia, senza però coincidere con quelle. Interpretare il fenomeno come una patologia è un errore perché presuppone si tratti di una condizione dalla quale si deve guarire. Viceversa – chiarisce la psicologa – il disagio che questi ragazzi esprimono è spesso ragionevolmente fondato. Va colto come il segnale di qualcosa che non funziona non tanto dentro, quando piuttosto fuori di loro. Nelle dinamiche familiari in primis, ma anche nella società dalla quale hanno scelto di prendere le distanze. Si tratta di una forma di disagio nuova, specifica di questa nostra epoca. Si lavora coi singoli, ma emerge un problema di tipo sociale. Quando accettano di aprirsi, di parlare, diventa chiaro che questi ragazzi hanno fame di relazioni autentiche, profonde, libere dalle maschere, dai giudizi e dai condizionamenti che avvertono nei rapporti sociali, soprattutto quelli fra i loro pari’.

Come si manifesta questa condizione? Quali segnali possono mettere sull’avviso le famiglie? ‘Le famiglie in genere colgono la gravità del problema, che si manifesta negli anni della scuola superiore, dopo un primo periodo nel quale hanno teso a minimizzarlo. Ed è comprensibile. L’adolescenza è una fase delicata per tutti, e i genitori sono portati a pensare che il rifiuto a uscire di casa sia solo temporaneo, destinato a risolversi col tempo. Se nella storia dei ragazzi sono avvenuti dei traumi, vanno considerati come un fattore di rischio aggiuntivo. Spesso i genitori di questi giovani – spiega la responsabile del progetto del Gruppo Abele – hanno verso di loro un atteggiamento molto protettivo, molto teso al controllo. Sono ragazzi che godono di pochissima autonomia e hanno paura a fare da soli anche le cose più semplici. Manifestano una forma di immaturità sia emotiva che nella gestione della loro vita pratica. Hanno spesso un rapporto difficile con il proprio corpo, di cui si vergognano, un corpo nascosto dallo sguardo altrui’.

‘A scuola – aggiunge Milena Primavera – soffrono in particolare la relazione con i loro pari. Si sentono inadeguati, non in linea con gli standard dei compagni, incapaci di stare dentro le loro modalità di rapporto, che avvertono come troppo disinvolte. Non sono ragazzi svogliati: molti di loro hanno passione e talento per lo studio. Spesso anche notevoli capacità creative e artistiche. Pur vivendo da reclusi – precisa – sono informatissimi su quello che capita nel mondo, perché passano molte ore sul web, su siti di informazione o interagendo dentro community di giocatori, ma non sui social. Per loro i social sono una riproduzione virtuale degli stessi rapporti sociali dai quali hanno scelto di prendere le distanze’.

In che cosa consiste il progetto del Gruppo Abele, a cui è stato assegnato il Premio Feltrinelli 2020 per una impresa di alto valore morale e umanitario? ‘Il progetto esisteva già in embrione, ma a causa della pandemia da Covid 19 ha potuto partire ufficialmente solo a metà giugno di quest’anno. È nato, come tutti i progetti del Gruppo Abele, per il desiderio di offrire un tentativo di risposta a forme nuove di disagio, e in particolare a un fenomeno ancora sommerso ma carico di significati che vanno al di là delle storie individuali che incontra. Una condizione che ci racconta certi vuoti di senso della contemporaneità. Al momento – spiega la responsabile del progetto – si rivolge in modo specifico a giovani fra i 17 e i 24 anni, e la segnalazione può venire direttamente dalle famiglie (attraverso il servizio ‘Accoglienza’ dell’associazione) o da parte dei servizi di neuropsichiatria territoriali, dalle scuole, dai servizi sociali. Operiamo a Torino e cintura, ad oggi abbiamo coinvolto una quindicina di ragazzi, ma speriamo di poterne raggiungere via via degli altri. Il nostro è un progetto con un approccio psico-educativo-socializzante. Dopo una fase complessa e delicata di aggancio relazionale, si propone di accompagnare in modo graduale il ragazzo a partecipare a laboratori individuali e poi in piccoli gruppi presso il nostro Centro Laboratoriale. Il Centro si trova in una struttura che ospita anche un progetto di co-housing solidale per ragazzi e ragazze attivato nel 2015, e questi due progetti coesistono e collaborano tra loro. Nei locali a nostra disposizione vengono svolte attività con educatori e talvolta anche consulenti specializzati, partendo da specifici interessi dei ragazzi e da loro richieste mirate. In qualità di psicologa io affianco gli operatori nelle attività socio-educative e intervengo nelle situazioni di crisi’.

‘Siamo all’inizio di un percorso, e per ora parliamo di attività molto semplici, finalizzate più che altro a consolidare un rapporto di fiducia con noi operatori e fra i ragazzi stessi. Cucinare e mangiare insieme può sembrare una banalità, ma per alcuni dei ragazzi che seguiamo – sottolinea la psicologa – è una conquista preziosa. Imparano a sentirsi autonomi, a interagire in vista di un obiettivo comune, soprattutto ad aver voglia di uscire dal loro isolamento per godere di un tempo piacevole insieme ad altre persone. Imparano a fidarsi. Gli obbiettivi che loro stessi si propongono sono ambiziosi, perché non è vero che si tratta di persone pigre, demotivate o senza sogni. Alcuni desiderano fortemente recuperare gli anni di studi persi, completando il percorso scolastico o universitario. Altri vorrebbero trovare lavoro. Il Centro è un luogo sicuro e protetto che costituisce un ‘ponte’ tra il loro rifugio e il mondo esterno da cui hanno cercato scampo. Accanto al progetto rivolto ai ragazzi, proponiamo un accompagnamento per le loro famiglie, svolto dai colleghi psicologi dell’Accoglienza del Gruppo Abele, con lo scopo di metterle in grado di accogliere e affrontare i cambiamenti dei figli, uscendo da un vissuto di vergogna e di giudizio. Il Premio Feltrinelli – conclude Milena Primavera – ci dà la possibilità di realizzare e potenziare queste attività e di condurre una ricerca finalizzata a stimare l’effettiva estensione del fenomeno su scala nazionale, condotta in collaborazione col CNR Istituto di Fisiologia Clinica di Pisa’. (Di Luciana Papa)