Siamo pronti alla Fase 2? Ce lo dice Cartabellotta

Ecco tutte le cose che mancano per riaprire il 4 maggio

APR 15, 2020 -

Roma, 15 apr. (askanews) – Emergenza coronavirus: a che punto stiamo in Italia? Siamo pronti a riaprire il 4 maggio? Nino Cartabellotta medico, esperto a tutto tondo di medicina, metodologia e sistemi sanitari, seguitissimo sui social, e presidente della fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sull’evidenza) ogni giorno analizza i numeri dell’epidemia e ci spiega perché la risposta non può essere un vero sì. E rivela anche i punti ancora quanto meno confusi della nostra preparazione alla fase 2.

“Le misure di distanziamento sociale previste dal decreto #IoRestoAcasa (9 marzo) e dal decreto ‘Chiudi Italia’ (22 marzo) hanno progressivamente ridotto l’incremento percentuale dei nuovi casi. Negli ultimi 7 giorni abbiamo raggiunto un valore medio del 2,6% che sembra un buon risultato, ma l’incremento complessivo della settimana rimane del 18,3% che corrisponde a quasi 27 mila casi. In altre parole, la diffusione del contagio è ancora ben lontana dall’essere controllata, in particolare in alcune Regioni, Province ed aree metropolitane. Il vero dilemma è quale valore prendere in considerazione per avviare la fase 2: il 4 maggio, secondo le nostre stime, saremmo intorno allo 0,6%. Per raggiungere la soglia utilizzata ad Hubei per avviare la riapertura (0,1%) bisognerebbe aspettare i primi di giugno.

Ovviamente queste stime non tengono conto dell’enorme porzione sommersa dell’iceberg che contiene centinaia di migliaia di casi asintomatici o paucisintomatici non diagnosticati”.

Quindi attenti ai numeri, guardiamoli bene perché ancora non ci siamo e il sistema sanitario almeno ora è pronto? “Il dato che infonde maggiore ottimismo – sottolinea Cartabellotta – è che le misure di distanziamento sociale hanno ridotto in maniera rilevante il sovraccarico degli ospedali e delle terapie intensive. Se a questo aggiungiamo l’espansione dei posti letto di terapia intensiva non dovremmo più assistere a scenari drammatici come quelli vissuti negli ospedali della bergamasca. Tuttavia, in particolare in Lombardia, non è chiaro quanto la presa in carico dei pazienti in isolamento domiciliare sia adeguata: la Regione infatti continua a non comunicare le guarigioni virologiche, spia indiretta che non vengono effettuati due tamponi di controllo. Rimane ancora oscura la motivazione, tranne rare eccezioni, del mancato utilizzo degli alberghi per l’isolamento domiciliare su tutto il territorio nazionale: le Regioni avrebbero dato una mano all’economia locale e, soprattutto, garantito ai pazienti infetti una quarantena in reale isolamento”.

Un altro vulnus scoperto dal virus riguarda la sicurezza di medici e operatori sanitari, e degli stessi ospedali, in certi casi divenuti focolaio: “La fornitura di dispositivi di protezione individuale è nettamente migliorata rispetto a qualche settimana fa, ma purtroppo tra dichiarazioni (e rassicurazioni) ufficiali e denunce di chi lavora sul fronte non si riesce a capire se il problema è approvvigionamento e/o di distribuzione capillare e costante dei DPI”. Inoltre “percorsi dedicati per i pazienti COVID-19 dovrebbero esistere da tempo in tutti gli ospedali, ma anche in tutte le residenze per anziani. Il condizionale è d’obbligo perché non esiste alcun monitoraggio pubblico su eventuali carenze, rilevate solo da narrative giornalistiche a cui talora seguono ispezioni ministeriali”.

Pochi punti fermi ancora, anche sul protocollo terapeutico migliore da usare, ché “sui percorsi di cura si è creata una vera e propria prateria su cui scorrazzano protocolli differenti, sia domiciliari, sia ospedalieri: l’Agenzia Italiana del Farmaco ha autorizzato varie sperimentazioni cliniche, ma la sensazione è che le varie Regioni stiano andando per conto proprio, sfruttando la possibilità dell’uso compassionevole dei farmaci, senza raccogliere i dati in maniera strutturata ai fini di pubblicazioni scientifiche”.

Molti puntano sulle indagini sierologiche, a campione per stimare il reale impatto del virus in Italia e per qualcuno anche la base di un “patentino di immunità” che nella fase 2 potrebbe selezionare avanguardie che possono agire e lavorare in sicurezza. Che ne pensa Cartabellotta? “Le indagini sierologiche a campione vanno eseguite nell’ambito di protocolli di studio ben definiti: ad oggi infatti i test sierologici non hanno un sufficiente livello di validazione, ovvero appartengono ancora alla sfera della ricerca e non della pratica. In particolare, hanno una percentuale rilevante sia di falsi positivi (per reazione crociata con coronavirus comuni) sia di falsi negativi (per ritardo della risposta anticorpale): per questo conferire ‘patenti di immunità’ utilizzando i test sierologici è molto rischioso, anche perché ad oggi non è comunque nota la ‘data di scadenza’ ovvero per quanto tempo i soggetti esposti conservano l’eventuale immunità”.

Già si guarda alle vacanze estive ma questa estate non possiamo ignorare il virus: “Non credo che l’affaire vacanze possa rimanere fuori da successivi DPCM sulla fase 2. Anzi, l’avvicinarsi dell’estate rende quanto mai prioritario definire le regole di distanziamento sociale. Realisticamente, se cinema, teatri, concerti e stadi, rimarranno off limits sino all’autunno, vedo poco realistico attuare il distanziamento sociale sulle spiagge o negli stabilimenti balneari, anche con tanto avveniristiche quanto improbabili proposte, quali i pannelli di plexiglass”.

Anche se l’Italia metterà a punto la fase 2 per riaprire in sicurezza e la curva epidemica sarà sotto controllo, si presenterà presto, e soprattutto in estate, il rischio dei casi di ritorno, importati. Come si evitano? ” È un problema con cui dovranno confrontarsi tutti i paesi che hanno arginato la diffusione del coronavirus. Sta già succedendo in Cina, ma non esistono al momento strategie condivise perché la maggior parte del mondo sta ancora gestendo la fase attiva dell’epidemia”.

Ci sono ancora molte incertezze ma due punti certi Cartabellotta li rimarca, da tenere sempre presenti e sotto controllo, come coefficienti di rischio: “I modelli predittivi di rischio individuale sono poco affidabili, ma due cose sono ragionevolmente certe. La prima è che i contagi rallentano esclusivamente quando vengono implementate misure di distanziamento sociale; la seconda è che i decessi si concentrano prevalentemente nei soggetti oltre i 60 anni, specialmente se affetti da altre patologie. In particolare, dei 18.641 decessi confermati dall’Istituto Superiore di Sanità al 13 aprile, il 95% si è verificato in pazienti di età >60 anni e l’83,5% in soggettidi età =70 anni”.

Gtu/Int11