Crepaldi (Sissa): così il cervello fa di noi incredibili lettori

I retroscena di questa abilità in "Neuropsicologia della lettura"

DIC 21, 2020 -

Roma, 21 dic. (askanews) – Siamo in grado di leggere in media 240 parole al minuto, questo vuol dire che per leggere la “Divina Commedia” occorrerebbero poco più di 290 minuti, mentre per “Guerra e pace” servirebbero 26 ore. Siamo lettori straordinari, nel senso che la lettura – anche involontaria – accompagna la nostra vita quotidiana: dall’occhiata fugace a un volantino o a un’insegna, allo scambio di sms e email, alla firma di contratti, alla lettura di quotidiani e libri o di contenuti sul web.

La lettura ci sembra un’attività scontata, ma dietro c’è tutto un lavoro silenzioso, velocissimo del nostro cervello che ci consente di vedere una parola, riconoscerla come tale, associarla a un significato, tradurla in un suono. Tutto in meno di 50 millisecondi. E senza avere una predisposizione biologica specifica per la lettura. A svelare i retroscena di questa abilità è Davide Crepaldi, professore di Neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste, nel libro “Neuropsicologia della lettura – Un’introduzione per chi studia, insegna o è solo curioso” (123 minuti per leggerlo, informa l’autore), edito da Carocci.

“Mentre nasciamo forniti di un meccanismo che ci consente di imparare a parlare, una capacità che sviluppiamo assorbendola da chi ci sta intorno senza quindi uno sforzo attentivo controllato, lo stesso non si può dire della scrittura per la quale non abbiamo una predisposizione biologica. Però – spiega Crepaldi ad askanews – la scrittura è stata inventata da noi per essere facilmente catturabile da sistemi cerebrali che fanno parte del nostro patrimonio genetico e che il nostro cervello sfrutta. Il sistema di scrittura è stato inventato, costruito in modo che il nostro sistema visivo fosse in grado di processarlo adeguatamente. Il sistema visivo si occupa di riconoscere la parola scritta come un oggetto familiare e questo attiva tutta una serie di processi a cascata”.

La lettura è il risultato finale di un processo che è possibile scomporre in varie fasi: il riconoscimento visivo, l’accesso al significato, la composizione del suono. Un processo tipicamente umano. Gli animali, e solo alcuni, si fermano al primo step. Alcuni esperimenti sui babbuini, ma anche su colombi e ratti, “hanno mostrato che anche loro hanno delle abilità, riescono ad associare stimoli visivi a oggetti del mondo, sono capaci di distinguere un oggetto da un altro e la parola che a questi oggetti si associa, ma non saranno mai in grado di produrre un linguaggio orale”.

Una volta riconosciuta la parola come un oggetto familiare, “il nostro cervello attiva tutta una serie di informazioni che a quella parola sono associate. Leggendo la parola cane, sapremo che stiamo parlando di quell’animale a quattro zampe che abbaia; ha una certa dimensione, variabile, ma limitata; è peloso, eccetera. Recuperiamo tutte quelle informazioni che definiscono quell’oggetto. Comprendiamo il significato della parola associata a quell’oggetto”. Un riconoscimento che avviene anche davanti a parole che richiamano significati astratti, legati ad esempio alla sfera emotiva. Infine, con la terza fase si arriva alla lettura ad alta voce, al linguaggio parlato, un’abilità sviluppatasi e consolidatasi nel tempo da un processo di selezione naturale e da mutazioni genetiche per cui “il cervello ha in dotazione un hardware che, anche se molto probabilmente non specifico, è stato certamente plasmato dalle esigenze connesse alla comprensione e produzione del linguaggio stesso”. Passaggio che avviene molto velocemente: dal grafema al fonema non ci vogliono più di 100 millisecondi!

Cosa succede se usiamo supporti di lettura diversi? Cambia qualcosa se leggiamo un quotidiano cartaceo o se invece lo leggiamo online, come ormai accade sempre più spesso? Uno dei capitoli del libro del prof. Crepaldi tratta proprio di questo. “Sì – spiega il neuroscienziato – ci sono delle differenze ma non sono riferite ai processi cognitivi coinvolti nella lettura, quelli cui abbiamo accennato fin qui, cambiano le interazioni con altre funzioni cognitive come la memoria e l’attenzione. La lettura su schermo è spesso accompagnata da una serie di informazioni che non hanno a che vedere con il testo che stiamo leggendo, pensiamo ai banner pubblicitari o alla grafica dei giornali online, e il nostro cervello, plasmato da millenni di evoluzione per cogliere automaticamente ogni variazione dello scenario percettivo, non può fare a meno di porvi attenzione. Anche se torniamo rapidamente all’oggetto del nostro interesse, qualcosa va perso in termini di velocità e di comprensione approfondita di quello che stiamo leggendo”.

“La lettura su carta – aggiunge il neuroscienziato – presenta anche un altro vantaggio, ci offre degli ancoraggi. Il ricordo di un certo contenuto si àncora ad esempio al punto del libro in cui lo abbiamo letto: in alto a destra, in basso a sinistra. La pagina del libro poi è una cornice semplice e priva di distrazioni. Senza contare che c’è anche un aspetto emozionale legato alla multisensorialità (la carta, il suo profumo, ecc.). Comunque, come spiego nel libro, – chiarisce Crepaldi – la ricerca neurocognitiva in questo campo è ancora agli inizi, quindi non si hanno ancora molti dati a disposizione. Non credo che un tipo di lettura sia meglio dell’altro, semplicemente sono diversi”.

L’ultimo capitolo è dedicato alla dislessia, la difficoltà che alcuni bambini hanno nella lettura ad alta voce. Un disturbo dell’apprendimento enormemente cresciuto nella consapevolezza della società, fino a diventare, scrive, “come un’ombra perennemente presente nel panorama mentale degli insegnanti e dei genitori (e, in qualche caso, forse dei bambini)”. “Non è stata ancora trovata una causa oggettiva della dislessia che possa in qualche modo certificare la presenza di queste difficoltà nella lettura inquadrandole come una patologia”. “È stato creato un sistema per misurare questo disturbo e a seconda del punteggio raggiunto nei test si stabilisce chi è dislessico e chi no. Certamente – precisa – si tratta di un sistema utile, ma a mio avviso bisognerebbe guardare a questo disturbo come a una minore abilità nel leggere, che però, in assenza di altri disturbi, non pregiudica affatto la capacità intellettuale del bambino che ne soffre. Oltretutto la dislessia ha molte sfaccettature per cui sarebbe forse più corretto parlare di dislessie”.

La ricerca in questo campo continua e nuove conoscenze potranno arrivare anche da Davide Crepaldi che, grazie a un ERC Starting Grant, sta portando avanti il progetto “STATLEARN – The reading brain as a statistical learning machine”, che si concluderà il prossimo ottobre, per verificare l’ipotesi che un meccanismo cognitivo fondamentale sia alla base dell’identificazione visiva delle parole, cioè l’apprendimento statistico. “Finora abbiamo ottenuto buone evidenze”, dice il neuroscienziato. Non resta che attendere. (di Luciana Papa)