Manca una nave oceanografica, si apre convegno dei geologi marini

Cnr: servirebbe agenzia nazionale ad hoc per gli enti interessati

FEB 21, 2019 -

Roma, 21 feb. (askanews) – Più di 350 ricercatori si sono ritrovati nella sede centrale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) a Roma per partecipare al terzo convegno dei geologi marini in programma fino al 22 febbraio, un’importante occasione di confronto tra comunità scientifica, istituzioni e mondo dell’industria per discutere di geoscienze marine, una disciplina oggi fortemente connessa ad altre scienze del mare, come l’oceanografia, la biologia marina e le geo-tecnologie.

L’evento, dal titolo “La Geologia marina in Italia” prevede inoltre una tavola rotonda con i responsabili delle flotte oceanografiche di Norvegia, Spagna e Francia, per un confronto sulla situazione attuale e sul futuro della gestione delle navi da ricerca in Europa: obiettivo ultimo è quello di avviare una discussione sulla necessità di dotare la comunità marina italiana una nuova nave oceanografica mediterranea.

“Per garantire all’Italia una posizione di leadership a livello internazionale nella ricerca marina è fondamentale un forte investimento sull’innovazione tecnologica, in particolare nelle infrastrutture”, ha affermato il direttore del dipartimento Scienze del sistema Terra e tecnologie per l’ambiente (Cnr-Dta) Fabio Trincardi.

“Il Consiglio nazionale delle ricerche, tramite la sua flotta di navi oceanografiche, per oltre 20 anni ha sostenuto le principali infrastrutture marine, anche al servizio di altri enti che operano in questo settore, vitale per il Paese. Ora, a seguito della dismissione della nave Urania e della conclusione del contratto della nave Minerva Uno, è necessario assicurare alla comunità scientifica nazionale una nuova nave oceanografica per svolgere ricerca nel Mediterraneo, garantendo così la massima continuità nelle attività e ampliando le capacità di lavoro rispetto al passato. Oltre a rappresentare un enorme investimento in termini di generazione di nuova conoscenza, le navi oceanografiche hanno un impatto per il Paese dal punto di vista economico, formativo e divulgativo. Con riferimento al Mediterraneo in particolare, poi, esse permetterebbero di rafforzare le conoscenze su temi cruciali come gli elementi di pericolosità naturale (sismicità e attività vulcanica sottomarina, frane costiere o sottomarine, maremoti), l’impatto dei cambiamenti climatici e l’impatto antropico diretto, a partire dall’inquinamento da plastica, che raggiunge il 7% mondiale in un bacino che rappresenta meno dell’1% dell’oceano globale”.

In Italia, la comunità scientifica marina conta circa 600 unità di personale del Consiglio nazionale delle ricerche distribuite nella rete degli Istituti di ricerca, cui si aggiungono gli altri Enti marini del Miur – Stazione Zoologica ‘Anton Dohrn’ e Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale- i dipartimenti universitari attivi nella ricerca marina, e alcune componenti di Enti come Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Enea e Istituto Idrografico della Marina.

“Sarebbe auspicabile pensare ad una Agenzia nazionale che si occupi delle navi oceanografiche sotto il controllo del Miur e a favore di tutti gli Enti di ricerca con competenze marine e delle Università”, ha aggiunto Trincardi. “Questa soluzione consentirebbe anche la gestione ottimale delle strumentazioni più tecnologiche (geofisica, veicoli autonomi o filoguidati, sistemi per la campionatura eccetera), che potrebbero essere spostate da un mezzo all’altro in funzione degli obiettivi scientifici delle varie campagne”.

Per il professor Francesco Chiocci, dell’Università la Sapienza di Roma, “la nave resta lo strumento indispensabile su cui mettere qualsiasi tipo di strumento e comunità per imparare”:

“La cosa è particolarmente importante per le nuove generazioni perché ognuno si forma se può accedere a queste importanti infrastrutture di ricerca, il fatto di non averle in questo momento mette in discussione quello che accadrà non l’anno prossimo ma magari fra 10 o 20 anni, cioè il fatto che nuovi ricercatori non si potranno formare come si sono invece formati i vecchi ricercatori che stanno in questo convegno presentando i loro risultati”.