La mappa 3D dei campi magnetici dopo il Big Bang

Studio ricercatori Istituto Max Planck con ricercatori Inaf

APR 3, 2018 -

Roma, 3 apr. (askanews) – Nell’evento che ha segnato l’inizio dell’universo, ovvero il Big Bang, non sono state prodotte solo particelle elementari e radiazioni, ma anche campi magnetici. Un team di ricercatori guidati dall’Istituto Max Planck per l’Astrofisica in Germania e al quale hanno partecipato Daniela Paoletti dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Bologna e Franco Vazza (Università di Bologna, Università di Amburgo e Inaf di Bologna), ha calcolato, segnala Media Inaf, con grande accuratezza come dovrebbero apparire oggi questi campi magnetici nella porzione di universo più prossima a noi, ricostruendo una mappa tridimensionale della loro distribuzione. L’intensità attuale di questi campi magnetici è incredibilmente debole; tuttavia, questa previsione potrebbe aiutare gli scienziati ad affrontare la sfida di riuscire, un giorno, a misurarli.

“Nell’universo primordiale, prima che venisse emessa la radiazione di fondo cosmica a microonde, avrebbero potuto esistere campi magnetici diffusi in tutto l’orizzonte cosmologico – dice Daniela Paoletti, coautrice dell’articolo sottomesso alla rivista Classical and Quantum Gravity -. In questo articolo ci siamo concentrati sul meccanismo di Harrison che può generare campi magnetici primordiali tramite correnti a loro volta generate da moti vorticosi nelle fluttuazioni della materia, le stesse che hanno poi dato origine alle strutture che osserviamo. Una novità di questo articolo è quello di vincolare queste fluttuazioni a quelle del nostro universo locale. A partire da osservazioni, i campi magnetici vengono ricostruiti con una specie di ‘ritorno al futuro’: prima si calcolano i campi generati fino alla ricombinazione dal meccanismo di Harrison, poi i campi così generati vengono evoluti fino ai giorni nostri con le simulazioni”.

Le informazioni necessarie per ottenere queste simulazioni sono contenute nella distribuzione delle galassie che ci circondano, poiché questo è il risultato del moto della materia sin dall’universo primordiale. Poiché conosciamo le leggi che portano alla formazione delle galassie, dall’odierna distribuzione delle galassie è possibile – seppure con qualche incertezza – tracciare l’evoluzione della distribuzione della materia dall’universo primordiale ai giorni nostri. Ciò significa che, sapendo interpretare i dati, sono disponibili le informazioni necessarie per prevedere intensità e distribuzione dei campi magnetici generati dall’effetto Harrison nell’universo di oggi. I ricercatori hanno utilizzato questa idea per calcolare i residui di quei campi magnetici primordiali nel nostro vicinato cosmico, vale a dire in una sfera dal raggio di 300 milioni di anni luce. Questi campi magnetici sono estremamente deboli, ovvero un miliardo di miliardi di miliardi di volte più bassi del campo magnetico terrestre. Nonostante questi valori piccolissimi, il team è stato in grado di prevedere con precisione la struttura del campo magnetico vista dalla Terra e in luoghi noti nell’Universo.

“Simulare l’evoluzione dei campi magnetici generati dal meccanismo di Harrison non è stato facile – commenta Vazza – perché per farlo correttamente abbiamo dovuto simulare una grande regione di universo locale (di circa un miliardo e mezzo di anni luce di raggio) e a partire da epoche molto più remote rispetto a quanto facciamo di solito, appena 300 mila anni dopo il Big Bang. I campi magnetici predetti dalla simulazione (che ha girato per alcune decine di migliaia di ore in parallelo nel centro di Supercalcolo tedesco di Jülich) sono minuscoli, ed è improbabile che potranno mai essere osservati. Tuttavia, i calcoli mostrano che queste linee di campo magnetico dovrebbero effettivamente essere disposte esattamente in quel modo, nello spazio intergalattico attorno a noi”. Le simulazioni sono state svolte anche nel contesto del progetto supportato dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), che finanzia il gruppo di ricerca “MAGCOW”.

I campi magnetici predetti sono molto più piccoli delle nostre attuali capacità di misurazione. Tuttavia, i calcoli condotti in questo studio mostrano che possiamo comprendere il nostro cosmo con grande precisione e stimare l’entità di effetti debolissimi. E chissà, forse tra qualche decennio avremo a disposizione strumenti sufficientemente sensibili per riuscire a misurarli, allo stesso modo con cui Albert Einstein predisse l’esistenza delle onde gravitazionali cento anni prima della loro rilevazione.