Ricerca, Gianotti: l’Italia sta perdendo generazioni di scienziati

Così il direttore generale del Cern sul "drammatico precariato"

FEB 25, 2016 -

Roma, 25 feb. (askanews) – “Nel campo in cui lavoro, la fisica fondamentale, gli italiani non sono secondi a nessuno. In Italia ci sono anche istituti che funzionano, come l’Istituto nazionale di fisica nucleare che partecipa a progetti internazionali di altissimo livello insieme ad alcune università, trascinando in queste imprese anche l’industria. E questo è un esempio virtuoso di come la ricerca dovrebbe funzionare. Quello che in Italia è drammatico è il precariato, il fatto che i nostri giovani non abbiano speranze a lungo termine nel nostro Paese e quindi siano costretti a emigrare. E’ un peccato perché quando si perdono delle generazioni di scienziati, ricucire una tradizione che dura ormai da decenni diventa difficile”. A dirlo Fabiola Gianotti, direttore generale del Cern di Ginevra, impegnata in Giappone ma che ha voluto comunque dare il suo contributo all’iniziativa “Salviamo la ricerca italiana”, dibattito organizzato nell’Aula Amaldi del Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma La Sapienza sulla scia dell’eco suscitata dalla lettera pubblicata su “Nature” dal fisico Giorgio Parisi per denunciare gli scarsi investimenti dell’Italia nel settore della ricerca e diventata poi una petizione lanciata da 69 scienziati, tra cui lo stesso Parisi, che in pochi giorni ha raccolto oltre 40mila firme.

L’Italia, ha detto Parisi aprendo l’incontro in un’Aula affollatissima, “non è un Paese accogliente per i ricercatori”.Tra il 2005/2008 e il 2014, ha spiegato il fisico, le immatricolazioni di studenti sono scese del 20%, i docenti del 17%, i corsi di studio del 18% e il fondo per il finanziamento ordinario del 22,5%. “Gli studenti italiani vanno all’estero e gli stranieri non vengono in Italia”. Un dato avvalorato dalle esperienze di diversi ricercatori che hanno raccontato le loro storie sia dal vivo che attraverso dei video inviati dai Paesi in cui attualmente svolgono la loro attività. Un’attività che diventa sempre più itinerante: ogni 3-4 anni si è costretti a spostarsi in un altro Paese a caccia di nuovi finanziamenti.

La performance dei ricercatori italiani è più che buona, ha spiegato Arianna Montorsi del Politecnico di Torino illustrando alcuni dati sulla ricerca in Europa, il problema è che sono pochi rispetto alla popolazione, al di sotto della media europea: sul totale Ue dei ricercatori, il 20,5% è rappresentato da tedeschi, il 17% da britannici, il 13% da francesi, l’8% da spagnoli e il 6% da italiani. L’Italia poi non riesce a recuperare quello che investe nei programmi di ricerca europei: nel Settimo programma quadro 2007-2013 il nostro Paese, ha detto Montorsi, ha perso circa il 30% rispetto all’investimento e per Horizon 2020 si stimano perdite per 3-5 miliardi di euro in 7 anni. “Esiste un vuoto politico e strategico che va colmato. C’è bisogno di interventi strutturali per rendere il sistema competitivo” e non perdere risorse.

Diverse le testimonianze di ricercatori che hanno potuto portare avanti il loro lavoro grazie ai finanziamenti ERC (European Research Council) attraverso ad esempio gli Starting Grant. Come Roberto Navigli professore del Dipartimento di informatica della Sapienza che grazie a quel finanziamento da 1,3 milioni di euro per 5 anni ha creato BabelNet, una rete semantica multilingue, riuscendo ad attirare nel progetto anche menti straniere. O Sabrina Sabatini, del Dipartimento di Biologia, che grazie ai fondi ERC ha potuto lavorare a un progetto sulle cellule staminali vegetali e che, però, ora è in cerca di nuovi finanziamenti o, ancora, Francesco Ricci (Dipartimento di Chimica di Tor Vergata) che potrà continuare a fare ricerca per 2-3 anni grazie ai fondi Erc. I 92 milioni di euro del bando Prin che finanzia la ricerca di base, lanciato alla fine dell’anno scorso, sono – dice – “un importo ridicolo” visto che interessa tutte le discipline. Forse, come ha osservato Piero Angela – che di divulgazione scientifica se ne intende – per la ricerca “c’è anche un problema di comunicazione”. L’importanza della ricerca di base “è poco recepita dai governi” e in generale “la ricerca è poco popolare”. Forse è anche su questo fronte che bisogna agire per far capire che la ricerca riguarda tutti, è il futuro di un Paese.