Il Pacifico nuovo “lago cinese”? Contromisure da Usa e alleati

L'ascesa di Pechino preoccupa Washington, Tokyo e Australia

NOV 26, 2018 -

Roma, 26 nov. (askanews) – Era il 1954 quando il presidente degli Stati uniti dell’epoca, il generale Dwight Eisenhower, stabilì che l’Oceano Pacifico doveva essere, nella strategia Usa, un “lago americano”. Oggi o non lo è più, o lo è sempre meno. Non è tuttavia affatto detto che possa diventare un “lago cinese”, nonostante la grande ascesa economica e militare del Paese del Centro.

Il presidente cinese Xi Jinping, al potere dal 2012, è l’architetto della nuova strategia globale cinese che punta, verso Occidente, a serrare le fila delle infrastrutture euroasiatiche in modo da rendere Pechino il punto di partenza dei grandi flussi di merci e di dati attraverso l'”heartland”.

Sul fronte orientale Oriente, cioè verso il Pacifico, Pechino ha lavorato e sta lavorando per rafforzare una potenza militare ed economica che garantisca gli approvvigionamenti di materie prime attraverso le rotte del Mar cinese orientale, su cui rivendica la sostanziale sovranità anche a fronte di analoghe rivendicazioni di diversi altri paesi.

Il rafforzamento militare di Pechino non passa inosservato. Recentemente una commissione del Congresso Usa ha pubblicato un rapporto nel quale ha fatto suonare un campanello d’allarme: gi Stati uniti non possono più essere certi di vincere un eventuale conflitto con la Russia o con, appunto, la Cina. A dispetto dei 716 miliardi di dollari del budget della Difesa Usa, quattro volte quello della Cina, Washington si trova a dover affrontare avversari che “hanno imparato” dal successo americano e ora sono “preparati per un tipo di conflitto a un livello talmente alto” che l’America “non ha avuto di fronte da tanto tempo”, ha detto Michael Morell, ex direttore della Cia e membrio della commissione durante il suo podcast “Intelligence Matters”.

Anche dal punto di vista economico, la Cina sta tentando di occupare gli spazi che la politica regionale americana ha lasciato vuoti. E’ interessante il caso del recente summit ASEAN e del vertice Apec a Papua Nuova Guinea, a cui il presidente americano Donald Trump non ha ritenuto di partecipare, inviando il suo vice Mike Pence. Questo ha consentito a Xi Jinping di assumere una centralità in questi appuntamenti importanti per la regione del Pacifico, anche grazie al fatto che Pechino sta accompagnando la sua ascesa strategica con importanti investimenti. E Xi ha fatto di più: ha ospitato una riunione con i leader delle isole del Pacifico prima della riunione APEC. Inoltre, la decisione del presidente americano di uscire dal Partenariato trans-Pacifico (TPP) ha sconcertato alleati di lunga data degli Usa, come il Giappone, i quali deciso di continuare comunque per la loro strada, non escludendo neanche una futura adesione della Cina stessa.

Bisognerà quindi rassegnarsi al fatto che il Pacifico diventi un “lago cinese”? Non è detto. Nonostante i balbettamenti della politica estera americana, comunque la posta in gioco è alta e Washington si sta muovendo in coordinamento con i suoi alleati, in particolare Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Oltre alle operazioni per la “libertà di navigazione” (FONOP) condotte dagli Stati uniti, da un punto di vista militare, il confronto con Pechino sembra più destinato a conquistare i “cuori”, o meglio le tasche”, dei paesi del Pacifico.

A luglio gli Stati uniti hanno hanno annunciato un aumento di 113 milioni di dollari nei fondi destinati alla cooperazione economica nell’Indo-Pacifico, a settembre gli Usa si sono impegnati a creare l’Infrastruttura regionale del Pacifico, un progetto da 350 milioni di dollari per le isole del Pacifico. C’è poi in vista la costituzione di un fondo previsto nella legge Asia Reassurance Initiative Act, che deve essere ancora approvata, il quale prevede un finanziamento di 7,5 miliardi di dollari in un quinquennio.

La terza economia del mondo, il Giappone, ha previsto per l’Asia sudorientale il finanziamento in infrastrutture per 200 miliardi di dollari in un progetto che si chiama Partnership for Quality Infrastructure, mentre la Nuova Zelanda ha promesso mezzo miliardo di dollari, sempre in cinque anni, per l’assistenza allo sviluppo nella regione. E l’Australia, dal canto suo, ha promesso un impegno da oltre 2 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali e di affari, oltre a garantire una magiore presenza militare.