Corno d’Africa regione strategica (che guarda sempre più al Golfo)

Premier Conte sarà giovedì e venerdì in Etiopia ed Eritrea

OTT 9, 2018 -

Roma, 9 ott. (askanews) – Etiopia ed Eritrea non hanno firmato il loro accordo di pace ad Addis Abeba o ad Asmara, ma a Gedda, in Arabia Saudita, alla presenza del re saudita Salman Bin Abdul Aziz, del Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, e del ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti, Shaikh Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, a indicare il ruolo svolto dai Paesi del Golfo nello storico riavvicinamento tra i due Paesi, dopo 20 anni di ostilità, riconosciuto dai due leader africani.

Segnata da instabilità e povertà, la regione del Corno d’Africa è strategica per il commercio internazionale nel Mar Rosso, una delle rotte commerciali più trafficate al mondo che collega l’Asia all’Europa attraverso il Golfo di Aden a Sud e Canale di Suez a Nord, che negli ultimi tre anni ha assunto maggiore importanza proprio per la crescente presenza dei vicini Paesi del Golfo, interessati a garantirsi una via alternativa al trasporto del greggio a fronte delle minacce iraniane sullo Stretto di Hormuz. Un’importanza che si traduce anche in una forte presenza militare, con il piccolo Stato di Gibuti che ospita le basi di Stati Uniti e Cina, oltre che Francia, Italia e Giappone, e presto anche dell’Arabia Saudita, mentre gli Emirati sono presenti dal 2016 nel porto di Assab, in Eritrea, principalmente per fini militari a fronte della guerra in corso nello Yemen dal 2015, e stanno sviluppando una base navale a Berbera, nel Somaliland.

Da tempo gli Emirati stavano agendo per favorire un riavvicinamento tra Eritrea ed Etiopia e riportare così stabilità nella regione, ma le iniziative si sono moltiplicate con l’arrivo al potere ad Addis Abeba del premier Abyi Ahmed, lo scorso aprile. Un mese dopo il suo insediamento, il premier ha infatti incontrato ad Abu Dhabi il principe ereditario, che poi a giugno è volato nella capitale etiopica e ha firmato accordi da tre miliardi di dollari, con un miliardo depositato direttamente nella Banca centrale etiopica per aiutare il Paese a far fronte alla carenza di valuta pensante. Poco dopo Abyi ha annunciato l’intenzione di accettare la decisione Onu sui confini con l’Eritrea, risalente al 2002, e il presidente eritreo Isaias Afewerki ha accettato la sfida: alla prima Dichiarazione di pace firmata a luglio ad Asmara, l’accordo ha avuto poi il suo suggello a Gedda.

Ma sono ancora tante le sfide che attendono ora i due Paesi, dove il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sarà in visita giovedì e venerdì prossimi. La decisione di Abyi di accettare il verdetto Onu sui confini con l’Eritrea è in linea con la forte spinta riformista impressa al governo dal suo arrivo al potere in un Paese stremato da oltre due anni di proteste di piazza represse con la violenza e in gravi difficoltà economiche. Oltre a normalizzare i rapporti con l’Eritrea, Abyi ha infatti rilasciato decine di leader dell’opposizione e giornalisti, ha consentito il rientro in patria degli oppositori, ha concesso la grazia a persone e organizzazioni accusate di terrorismo, ha annunciato riforme politiche per sostenere un pieno sviluppo democratico del paese e riforme per liberalizzare l’economia e aprire agli investitori stranieri. Tutte iniziative volte a riformare un sistema di governo accusato di aver favorito la minoranza del Tigray (6% della popolazione) a scapito dei due principali gruppi etnici, Oromo e Amhara (oltre il 60% della popolazione), contro cui dal 2015 erano in corso proteste di piazza. Dal suo insediamento, Abyi, primo premier Oromo del Paese, ha lanciato appelli alla pace e all’unità del Paese, ma continuano a registrarsi violenze di matrice etnica e lo stesso premier è stato obiettivo di un attacco a una manifestazione ad Addis Abeba, lo scorso giugno, che ha causato due morti. A fronte di queste sfide interne, la ritrovata pace con l’Eritrea e la possibilità di avere accesso ai porti sul Mar Rosso possono però consentire all’Etiopia, secondo Paese africano per numero di abitanti (circa 100 milioni) e una delle economie che sono cresciute di più nel continente africano nell’ultimo decennio, di rafforzare lo sviluppo economico, riducendo le disuguaglianze sociali e creando occupazione per i giovani.

Da parte sua, il presidente eritreo, al potere dal 1991 dopo aver guidato la trentennale lotta di liberazione dall’Etiopia, ha aperto le frontiere alla libera circolazione delle persone e delle merci, mettendo così fine ad anni di isolamento e alimentando le speranze di una ripresa del percorso di riforme avviato all’indomani dell’indipendenza, nel 1993, e interrotto dallo scoppio della nuova guerra con l’Etiopia nel 1998. L’Eritrea non ha infatti una costituzione né un parlamento, e in questi anni di “né guerra né pace” con la vicina Etiopia, per la minaccia di un attacco ha imposto un servizio di mobilitazione nazionale a tempo indefinito che ha spinto molti giovani a lasciare illegalmente il Paese. Il servizio nazionale prevede che dopo tre mesi di addestramento militare a cui sono obbligati tutti i 18enni, quanti non seguono la carriera militare siano impiegati nelle scuole, nella pubblica amministrazione, nel settore agricolo e in altri settori a sostegno dello sviluppo del Paese, ma con salari inadeguati al costo della vita. Migliaia di eritrei si trovano oggi nei vicini Etiopia e Sudan e altri migliaia in questi anni hanno tentato la traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa.

L’Eritrea, con i suoi 3,6 milioni di abitanti, figura al 179esimo posto, su 189 Paesi, dell’Indice di sviluppo umano dell’Onu. Negli ultimi anni, le autorità eritree hanno più volte sollecitato il sostegno della comunità internazionale per creare occupazione e arginare la fuga dei giovani, perché, come disse ad askanews Yemane Gebreab, consigliere del Presidente eritreo, durante una visita a Roma lo scorso anno, “per noi, che siamo un piccolo Paese, qualsiasi numero di eritrei voglia lasciare il Paese è troppo grande, anche se si tratta di piccoli numeri”. E sollecitò allora un interessamento dell’Italia, affermando che l’Eritrea vorrebbe “sviluppare una partnership che faccia tornare l’Italia nel Corno d’Africa e nel Golfo in modo massiccio”.