Da Xi a Putin, la marcia dei leader autoritari che sfida le democrazie liberali

Cina, presidente a vita. Erdogan, Al Sisi, Orban: il potere è loro

MAR 12, 2018 -

Roma, 12 mar. (askanews) – Xi Jinping potrà essere presidente a vita. La decisione, presa durante il XIX Congresso del Partito comunista cinese, ha sancito la svolta accentratrice e fatto svanire ogni speranza occidentale di democratizzazione del Paese. Xi è in buona compagnia. Vladimir Putin in Russia, Recep Tayyip Erdogan in Turchia, Viktor Orban in Ungheria, Abdel Fattah al Sisi in Egitto, Rodrigo Duterte nelle Filippine, seppur con sfumature diverse, rappresentano gli esempi più eclatanti di una deriva autoritaria che, secondo i loro detrattori, potrebbe mettere a repentaglio l’ordine internazionale liberale.

Nello scorso mese di gennaio, Freedom House ha pubblicato la sua relazione annuale sulla libertà nel mondo, “Democrazia in crisi”. Per il dodicesimo anno consecutivo, secondo quanto emerge dallo studio, la libertà è diminuita, con 71 paesi che hanno subito “decrementi netti delle libertà civili e politiche”. Una recessione democratica considerata dunque “globale” e legata non solo alla perdurante presenza o alla rapida ascesa di vecchi e nuovi campioni dell’autoritarismo, ma anche al collasso dell’autorità morale degli Stati uniti come primo esempio di democrazia nel mondo.

E così, mentre il nuovo presidente Usa Donald Trump, in casa, denigra lo stato di diritto, minaccia la libera stampa, abbraccia il capitalismo clientelare e utilizza i suoi discorsi politici per demonizzare gli avversari, all’estero insegue esempi di totalitarismo, guarda a chi taglia i fondi per la democrazia e i diritti umani, a chi controlla la stampa e censura le informazioni, e in taluni casi elimina gli avversari politici. “Regimi che rifiutano il modello democratico in cui gli occidentali sono cresciuti, e che consideriamo normali”, ha commentato George Magnus, ricercatore britannico del China Center dell’Università di Oxford, contattato di recente dall’AFP.

“In termini di governance internazionale, questo è un momento molto pericoloso”, ha spiegato il giudice Magnus, difensore della democrazia liberale. Bisognerebbe “certamente pensare a come affrontare il fenomeno”, ha aggiunto. Un fenomeno che il direttore di Human Rights Watch, Kenneth Roth, ha definito una vera e propria “emergenza delle democrazie illiberali” che “sfruttano il malcontento”, tra l’altro, verso globalizzazione, automazione, migrazione.

Eppure, Vladimir Putin, che con tutta probabilità sarà rieletto per un quarto mandato alle prossime elezioni del 18 marzo, ha costruito il suo ‘impero’ senza apparenti divagazioni dal trattato costituzionale russo. E, a scanso di equivoci, lo stesso capo del Cremlino, eletto per la prima volta nel 2000, lo ha spesso ricordato. “Non ho mai cambiato la costituzione, non l’ho piegata ai miei interessi in passato e non ho l’intenzione di farlo oggi”, ha detto appena due giorni fa in un’intervista alla rete americana Nbc che gli chiedeva se avesse intenzione di seguire l’esempio del presidente cinese Xi Jinping e restare al potere oltre il 2024.

La Costituzione in Russia impone un limite massimo di due mandati consecutivi. Nel 2008, Putin ha ceduto la poltrona di presidente a un suo fedelissimo, Dmitry Medvedev, ed ha tenuto per sé quella di primo ministro. Quattro anni dopo l’ha ripresa, il mandato è stato prolungato fino a sei anni e Putin correrà ora per un rinnovo. Sette gli avversari, tutte figure di secondo piano. L’unico in grado di dare fastidio al leader del Cremlino, Alexei Navalny, è stato arrestato con l’accusa di corruzione.

La stessa strada istituzionale e costituzionale è stata seguita da Erdogan in Turchia. Il capo dello Stato ha affidato a un referendum la riforma del Trattato che ha cambiato volto al Paese. La vittoria del “sì”, seppur risicata, ha permesso all’uomo forte di Ankara di avviare la Turchia sul percorso di un’autocrazia di stile mediorientale. Erdogan, dal 2019, potrà essere rieletto per due mandati consecutivi di 5 anni ciascuno, con una prelazione per ulteriori cinque anni. Una circostanza che lo porterebbe, in teoria, a rimanere alla presidenza fino al 2029, e poi addirittura fino al 2034.

Una vera e propria inversione di marcia rispetto al sogno del fondatore della Repubblica di Turchia, Ataturk, che aspirava a una nazione laica capace negli anni di candidarsi all’ingresso nell’Unione europea. E tutti i segnali che arrivano dal “Sultano” – come lo chiamano i suoi più feroci detrattori – non sono affatto incotraggianti. Erdogan, tra le altre cose, starebbe pensando di convocare un nuovo referendum sulla permanenza di Ankara come Paese candidato all’Ue. E, cosa ancor più preoccupante per le democrazie occidentali ed europee, starebbe verificando l’ipotesi di una consultazione popolare per la reintroduzione della pena di morte in Turchia, eliminata nel 2004.

A queste condizioni, ha chiaramente avvertito Bruxelles, l’adesione della Turchia all’Ue è del tutto esclusa. Tanto più che l’Europa, in alcuni dei suoi rappresentanti orientali, ha già la sua bella gatta da pelare. E non si tratta solo dell’Ungheria di Orban. L’attenzione è massima anche sulle evoluzioni in corso in Polonia e in Repubblica Ceca, Paesi che compongono il cosiddetto gruppo di Visegrad. Le politiche contro i migranti e le quote di accoglienza, e le decisioni sempre più autoritarie assunte dai governi locali, hanno già convinto le istituzioni europee ad avviare procedure di infrazione. “I Paesi dell’Europa orientale devono ricordare di essere usciti dalla situazione in cui erano negli anni ’90, grazie all’attrattiva del modello dell’Europa occidentale, per quanto imperfetto e anche macchiato, secondo i critici in Cina o altrove, dal proselitismo americano”, ha sentenziato Jean-François Di Meglio, presidente dell’organizzazione francese Asia Center.