## Coree, nella Zona Demilitarizzata prove di guerra e sogni di pace

Tra turismo e geopolitica, uno viaggio verso l'ultimo confine

FEB 20, 2018 -

Pyeongchang (Corea del Sud), 20 feb. (askanews) – Un confine che, 65 anni dopo la firma dell’armistizio tra le due Coree, resta ancora uno degli snodi caldi del mondo e, in un certo senso, dopo i cataclismi di fine Novecento e l’avvento della società globale digitalizzata, appare quasi come l’Ultimo confine. Da un lato la Corea del Sud, che dopo la fine della guerra è diventata una moderna potenza economica. Dall’altro la Corea del Nord, con il suo regime dinastico socialista e ora anche le ambizioni di potenza nucleare che preoccupano tutto il mondo. In mezzo tra i due Paesi, perennemente sospesi tra il desiderio di riunificazione e il conflitto con i vicini, la Zona Demilitarizzata (DMZ), voluta nel 1953 per fare da cuscinetto tra i due belligeranti e tuttora esistente. Nei giorni delle Olimpiadi invernali di PyeongChang, che hanno visto significative prove di dialogo tra le due Coree, che hanno sfilato insieme alla cerimonia inaugurale e hanno presentato la squadra unita nell’hockey femminile, l’organizzazione olimpica ha previsto anche dei tour nella DMZ, significativamente chiamati ‘Sentiero verso la pace’.

Gli autobus partono dal Media village di Gangneung e dal principale centro stampa dei Giochi a PyeongChang e portano giornalisti di tutto il mondo a visitare l’area del confine, quella più orientale, sulla costa del Mar del Giappone. L’atmosfera è turistica – e il turismo, abbiamo scoperto, è uno dei cardini dell’economia della DMZ – ma la guida che ci accompagna da subito ricorda le tragedie avvenute lungo il 38esimo parallelo e l’eredità di sofferenze che ancora oggi quella linea di demarcazione rappresenta. ‘Mio nonno ha combattuto nella guerra di Corea – ci ha poi raccontato la guida, che si fa chiamare Cathy dagli occidentali – e quando gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa mi ha detto solo del grande freddo e della fame. Poi ha aggiunto che c’erano i nemici, ma che erano dei ragazzi, ed erano uguali a loro’. La famiglia di Cathy vive pochi chilometri a sud della Civilian Control Line (CCL) istituita dalle autorità sud coreane su ordine degli Stati Uniti per garantire la sicurezza delle zone militari intorno alla DMZ. Si tratta di una fascia di ampiezza variabile, tra i 5 e i 20 chilometri, nella quale l’accesso è regolato e anche il nostro autobus, prima di superare il check point, viene controllato. ‘Mia madre – ha aggiunto la nostra guida – lavora nella CCL, ha un ristorante, che accoglie i militari e soprattutto i turisti’.

Nella CCL, in linea con l’idea originale di lasciare in piedi i villaggi nei pressi del confine, lungo il quale si è combattuta anche una logorante guerra di propaganda, vivono oggi circa 500 persone, alle quali si aggiungono i 200 militari stanziati all’interno della DMZ vera e propria. I residenti e i lavoratori della CCL hanno dei pass speciali, che consentono accessi più rapidi. Passandoci in autobus non si incontrano macchine e i terreni sono selvaggi, liberi dalla intensiva forma di sfruttamento agricolo che si può trovare lungo la costa, l’atmosfera è silenziosa, solo il vento e il mare, oltre al filo spinato e alle prime avvisaglie di postazioni militari che, ci viene ricordato, è assolutamente vietato fotografare, così come i soldati. Due di loro, molto giovani, almeno all’apparenza, salgono a controllare i nomi e le credenziali dei viaggiatori: sono molto educati e abbozzano parole in inglese. Il secondo check point richiede più tempo e il bus passa attraverso cancelli sempre più stretti e militarizzati. Curioso, ma ormai solo a livello semantico, che siano questi passaggi a condurci nella Zona demilitarizzata vera e propria che, a conferma della vocazione turistica, ha nel DMZ Museum la sua principale attrazione, almeno in questa area della provincia di Goseong.

Il museo sudcoreano richiama, più in alcune scelte di allestimento che non nella struttura, il Museo ebraico di Berlino dell’architetto Daniel Libeskind e racconta sostanzialmente la guerra, calda e fredda, dal punto di vista dei coreani del sud. Tra molte ricostruzioni, testimonianze degli attacchi nord coreani e documenti, si percepisce il senso di una battaglia di libertà, ma non mancano, inevitabilmente, le sfumature che un occhio neutrale cataloga come propaganda. Ma che da qui, forse, è più naturale considerare come strategie di sopravvivenza. In ogni caso, il museo è una tappa, un luogo molto ben identificato all’interno di uno spazio che invece resta sfocato, in fondo misterioso e inaccessibile, anche per la pattuglia di giornalisti benintenzionati che oggi è qui. Quello che pulsa, poche centinaia di metri più in là è il vero e proprio confine, ed è lì che tutta l’attenzione si catalizza. Oltre che su una strada costellata di bandierine rosse che sono il segnale della bonifica dalle mine antiuomo, disseminate a migliaia e migliaia nella terra di nessuno della DMZ. Finché, dopo l’ultimo, e ancora più accurato check point, entriamo nella zona militare dell’Osservatorio Geumgangsan, noto anche come Osservatorio 717. Un sito nel quale è proibito fare qualsiasi tipo di immagine, tanto che siamo invitati a lasciare sull’autobus anche gli smartphone, oltre a video e fotocamere. ‘Se vi sorprendono a fare delle foto – ha subito detto Cathy ridendo, ma fino a un certo punto – io non vi conosco’.

I militari, molto gentili, ci accompagnano nella grande ‘Sala dei briefing’ e qui tutto quello che fino a quel momento era stata solo un’idea, un’immagine mentale, diventa un’altra cosa, diventa un panorama. Al di là della grande vetrata (e salendo le scale notiamo che le finestre rivolte a sud hanno vetri normali, mentre quelle che guardano a nord sono completamente oscurate) si stendono le montagne, le isole, gli avamposti della Corea del Nord. Lo scenario naturale è impressionante, le vette sono elevate e digradano rapidamente verso il mare. I militari sudcoreani ci offrono una dimostrazione video: con una telecamera dotata di un potente zoom inquadrano diverse zone, in quello che, si capisce, è una sorta di spettacolo collaudato, ma non per questo meno affascinante. Le linee di filo spinato che, ci dicono, i nord coreani hanno spesso spinto più avanti, sempre più vicino alla linea effettiva di confine che dovrebbe distare due chilometri da ambo i Paesi, ma che ora, anche a occhio nudo, appare molto più vicina; diversi punti di osservazione con la bandiera del regime di Kim Jong-un, un vero e proprio avamposto nel quale, dice il sergente 26enne che tiene la presentazione in coreano e in inglese, ‘un paio di anni fa’ si è affacciato anche il leader supremo di Pyongyang. La telecamera ingrandisce anche dei posti di controllo lungo la strada e ci mostra dei bunker. In una delle riprese si vede anche la sagoma di un soldato e non possiamo non figurarci che, nello stesso momento che noi osservavamo queste appendici della misteriosa Corea del Nord, qualcuno di loro stesse facendo esattamente lo stesso, osservando noi osservatori.

Il sergente, alla fine della dimostrazione, ci racconta che la giornata dei soldati si articola soprattutto in ronde e controlli, mentre con i vicini non mancano forme di comunicazione: ‘Ci siamo scambiati dei messaggi – ha detto il militare – ma ora lo strumento che usiamo è rotto’. Alle domande politiche dice che non può rispondere (e quindi evitiamo di chiedere se la rottura dello strumento sia una sorta di metafora della situazione), ma l’interprete ci assicura che, in tema di Olimpiadi, ‘l’80% dei coreani era contento della unione delle due squadre sotto un’unica bandiera’. Questo dato legato allo sport ci permette di allargare un po’ il discorso e più tardi sull’autobus Cathy si lascia andare: ‘L’unificazione deve avvenire – ci ha detto – spero di poterla vedere nella mia vita. Ma se non sarà la mia generazione sarà quella successiva. Abbiamo la stessa lingua, la stessa faccia, le stesse tradizioni’.

‘Qui in Corea del Sud – ha proseguito la nostra accompagnatrice – le generazioni più vecchie sognano da sempre l’unificazione, mentre i giovani temono di dove pagare i costi per i nord coreani, come succedeva in Germania Ovest dopo la caduta del Muro di Berlino. Però in quei giorni tutto il mondo guardava alla Germania. Spero possa succedere anche qui in Corea’.

Alla fine, dopo avere fatto diretta esperienza della DMZ anche dalla terrazza all’aperto dell’Osservatorio 717, veniamo scortati ai nostri autobus. Anche se i controlli in uscita sono perfino più severi di quelli in entrata (con pure un soldato armato che, sciarpa a coprire naso e bocca, sale sul bus e ci scruta immobile e truce per lunghi secondi), quando partiamo e anche quando li incrociamo lungo la strada, i gruppetti di militari ci salutano sorridendo e agitando le mani, in una scena quasi da cartone animato. Anche questo momento, nella sua evidente stravaganza (l’esercito sud coreano, tra le altre cose, è storicamente un’istituzione forte, con addestramenti molto duri e un legame strettissimo con le forze armate degli Stati Uniti), è parte del grande racconto di una zona di guerra nella quale si provano a immaginare complessi scenari di pace. Anche questo è parte del fascino misterioso di un luogo come la DMZ, un confine invalicabile (la Hyundai aveva finanziato un collegamento tra i due Paesi negli anni Duemila, ma poi dei gravi incidenti hanno fatto chiudere questo canale) che però divide due popoli che, in fondo, si sentono uguali.

Il viaggio dei giornalisti-turisti finisce poi in un grande tempio buddista qualche decina di chilometri più a sud. Una grande statua domina uno spiazzo che si affaccia sul mare. Qualcuno prega, altri portano fiori, tutti scattano fotografie con il cellulare. Sembra un momento perfetto in un luogo spirituale senza tempo. Guardano la grande statua però non si riesce anche a non ricordare che alle sue spalle, proprio dietro le bellissime montagne che fanno da cornice, c’è la Corea del Nord, con la sua dittatura, i suoi armamenti, i suoi missili capaci di colpire con testate nucleari il Giappone e, pare, anche gli Stati Uniti.