Myanmar, una Cina interessata cerca di fermare la crisi dei Rohingya

Piano in tre fasi. Pechino ha investito pesantemente nello Stato Rakhine

NOV 20, 2017 -

Roma, 20 nov. (askanews) – C’è un problema che può rallentare le strategie della Cina nel proporsi come futuro centro di gravità delle politica e dell’economia globale: le crisi regionali ai suoi confini. Così, quando può, Pechino cerca di dare il suo contributo per stabilizzare situazioni delicate. E’ il caso della crisi dei profughi Rohingya tra Myanmar e Bangladesh, per la cui soluzione il Paese guidato da Xi Jinping ha interesse molto diretto. Pechino, oggi, ha affermato che sia Dacca che Naypyidaw hanno concordato su un piano in tre fasi proposto proprio dal suo ministro degli Esteri Wang Yi.

L’annuncio viene in un giorno in cui la crisi è al centro della diplomazia mondiale, anche perché nel Paese del Sudest asiatico si svolge la Riunione ministeriale Asia-Europa (Asem), quindi sono presenti diversi ministri degli Esteri tra i quali anche l’alta rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini. Quest’ultima oggi ha incontrato la leader “de facto” birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, finita al centro delle critiche per la dura repressione messa in campo dall’esercito di Myanmar contro i Rohingya che ha innescato la terribile crisi dei profughi al confine col Bangladesh. La numero uno della diplomazia europea è uscita dal faccia a faccia con un’impressione positiva. “Ho trovato i colloqui estremamente incoraggianti”, ha detto a Naypyidaw, dove si tiene la riunione ministeriale Asem. “Sono molto incoraggiata dalla possibilità, che io credo sia reale e concreta, che Myanmar e Bangladesh” raggiungano un accordo.

La questione dei Rohingya dello stato Rakhine non è di facile soluzione. I Rohingya sono una minoranza musulmana alla quale Myanmar non ha dato cittadinanza: li definisce immigrati bengali, mentre loro si ritengono indigeni dello stato Rakhine (Arakan nella loro lingua). La crisi in atto è iniziata ad agosto con una serie di attacchi da parte di militanti Rohingya ai quali l’esercito birmano ha reagito con una durissima repressione. Sono stati incendiati villaggi, ci sono state violenze che l’Onu ha classificato come “pulizia etnica”. Almeno 620mila profughi hanno attraversato la frontiera, molti dei quali morendo sul fiume che divide i due paesi. I racconti che hanno portato con loro sono raccapriccianti: uccisioni, stupri, violenze di ogni genere.

Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi è stato prima in Bangladesh, nel weekend dell’11-12 novembre, e in Myanmar nell’ultimo fine settimana, dove si trova ancora oggi per l’incontro Asem. Ai leader dei due Paesi ha proposto una “soluzione in tre fasi” per il rimpatrio dei Rohingya, sul quale in linea di principio c’è già un accordo tra Bangladesh e Myanmar. La prima prevede un cessate il fuoco nello Stato Rakhine “in modo che i residenti locali non debbano più fuggire”. Poi ci sarà il rimpatrio. Infine bisognerà trovare una soluzione a lungo termine per alleviare la povertà. “Questa proposta è stata approvata in Bangladesh e dai leader del Bangladesh. Ieri ha anche ottenuto l’appoggio dei leader di Myanmar”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Lu Kang. “Noi speriamo – ha continuato – che la proposta del ministro degli Esteri Wang Yi non solo aiuti a risolvere l’attuale crisi dei Rohingya, ma anche – ed è più rilevante – a contribuire a gestire dalla base la questione”.

La Cina sembra interessata a fare la sua parte anche perché Myanmar è uno dei Paesi lungo una delle nuove Vie della Seta che vuole aprire per integrare da un punto di vista infrastrutturale, e quindi degli scambi globali, il continente euroasiatico. Wang, infatti, oltre a parlare dei Rohingya, incontrando Aung San Suu Kyi, ieri ha proposto la costruzione di un corridoio economico Cina-Myanmar, che parte dalla provincia di Yunnan alla città di Mandalay, si estenda poi a Est alla città nuova di Yangon e a Ovest alla zona economica speciale di Kyaukpyu. Si tratta di un ennesimo tassello di quella “One Belt One Road Initiative” fortemente voluta dal presidente Xi Jinping e accolta a braccia aperte dai Paesi che vengono attraversati da queste nuove vie di trasporto, sui quali spesso piovono importanti investimenti cinesi.

E’ il caso, appunto, di Myanmar. Pechino ha investito pesantemente nel Paese e anche nello stesso stato Rakhine, epicentro della crisi Rohingya. Tra il 1988 e il 2014 ha fatto piovere circa 15 miliardi di dollari nel Paese, allora ancora governato dalla giunta militare. Tra questi, 9 miliardi di dollari sono stati riversati per un porto a una zona economica speciale a Kyaupkyu, citata dallo stesso Wang, che si trova nello stato Rakhine. Non solo. Ad aprile 2017 la provincia cinese di Yunnan s’è collegata con stato Rakhine attraverso un oleodotto 2,45 miliardi di dollari. Si tratta di un’arteria fondamentale per incanalare in Cina il greggio del Medio Oriente.

Lo stato Rakhine, a dispetto della povertà estrema dei suoi abitanti, ha importanti riserve di gas offshore e ricchi terreni che, anche grazie ai progetti cinesi, hanno assunto un rilevante valore. Dietro l’attuale crisi, iniziata il 25 agosto con attacchi dell’Esercito di salvezza Rohingya di Arakan (ARSA) contro la polizia di frontiera e continuata con gli spietati attacchi dell’esercito ai villaggi, c’è anche questa realtà. “La terra liberata dall’espulsione radicale dei Rohingya potrebbe essere nell’interesse dei militari e del ruolo che questi hanno per lo sviluppo economico del paese”, ha commentato Saskia Sassen, docente di sociologia alla Columbia University, parlando all’agenzia di stampa France Presse. “Il terreno – ha continuato – è diventata preziosa a causa dei progetti cinesi”. E, non a caso, le autorità birmane parlano spesso di “ri-sviluppo” dell’area, ma non precisano di cosa stiano parlando.

D’altro canto i residenti Rohingya, che sono spesso visti con sospetto dagli appartenenti della maggioranza Bamar (buddisti), non hanno ottenuto vantaggi dai grandi investimenti cinesi. “Il profitto tende a essere condiviso tra Naypyidaw e le compagnie straniere, con la conseguenza che le comunità locali spesso percepiscono il governo come sfruttatore”, ha spiegato un rapporto rilasciato ad agosto da una commissione guidata dall’ex numero uno dell’Onu Kofi Annan. Il risultato è che il 78 per cento della popolazione, prima della crisi, era al di sotto della linea di povertà rispetto a poco più del 30 per cento del resto del paese. Con il conflitto degli ultimi mesi, ovviamente, questo dato potrebbe essersi ulteriormente aggravato.