“Rojava, una democrazia senza Stato”, la speranza arriva da Kobane

Lotta a Isis ma anche per nuovo mondo, raccolta saggi lo racconta

OTT 6, 2017 -

Roma, 6 ott. (askanews) – A Kobane uomini e donne hanno combattuto contro l’Isis, ‘una guerra per l’umanitá’. La città del Kurdistan siriano sotto assedio ha resistito e cacciato gli uomini del califfato. Davide contro Golia. Una resistenza eroica sorprendente come sorprendenti gli ideali coinvolti: in quella regione enclave del Medio Oriente, mentre era in atto una guerra feroce, quegli stessi uomini e donne hanno costruito una nuova forma di democrazia, una democrazia dal basso, inclusiva, femminista ecologista. Una rivoluzione sociale.

‘Rojava, una democrazia senza Stato’, edizioni Elèuthera, pubblicato nel settembre del 2017 è una raccolta, tradotta dall’inglese, di testimonianze di attivisti e reporter turchi, americani, iraniani, di antropologi e studiosi, che raccontano questa nuova rivoluzione sociale, la nuova democrazia costruita con la forza delle idee in piena guerra contro l’Isis.

Il Rojava, regione del Kurdistan occidentale o Siria settentrionale, raggruppa i tre cantoni di Cizîrê, Kobane, Afrîn. La sua rivoluzione sociale si è ispirata al confederalismo democratico elaborato dal leader curdo Abdullah Öcalan, leader storico del Pkk. Öcalan, detenuto dal 1999, nel carcere turco sull’isola rocciosa di Imrali, nel Mar di Marmara, ha preso le distanze dalla visione marxista arrivando a ripudiare la concezione stessa di Stato nazione, come espressione del dominio e del patriarcato. Una visione non statale della democrazia e dell’organizzazione sociale influenzata dal municipalismo di Murray Bookchin. Una visione rivoluzionaria nel Medio Oriente, anche per il contributo fondamentale delle donne, chiamate a rovesciare il patriarcato. Un nuovo modello di democrazia che si sta sperimentando di fatto nel Rojava. La popolazione del Rojava ha infatti iniziato ad autogovernarsi attraverso una rete di assemblee cittadine e consigli confederati, dove vengono decisi aspetti cruciali della vita sociale, come l’auto difesa militare e l’amministrazione della giustizia, dove gli incarichi sono revocabili, occupati a rotazione, alle donne è riservata una quota minima del 40% e garantita la copresidenza. Un sistema assembleare strutturato dal basso verso l’alto.

Così nel Rojava la coalizione che raggruppa il Pyd (partito che dal nazionalismo curdo è giunto ad abbracciare i principi del municipalismo libertario) e i suoi alleati ha dato vita al Movimento per una società democratica (Tev-dem).

Questo sistema, contrapposto sia al regime di Assad che a quello teocratico dell’Isis, funziona dal 2012, anno in cui lo Stato siriano ha perso il controllo dei suoi territori settentrionali. Nel 2014 i tre cantoni, anche per accreditarsi a livello internazionale e superare l’embargo turco, hanno adottato una carta giuridica valida per l’intera società: il Contratto sociale (scaricabile sul sito di Elèuthera). E’ un documento senza precedenti nel Medio Oriente, che, come scritto nel preambolo, rifiuta ‘l’autoritarismo, il militarismo, il centralismo e l’intervento dell’autorità religiosa negli affari pubblici’. Supporta la libertà di culto ma separa categoricamente la religione dallo Stato. Si impegna all’inclusione tra le diverse etnie e religioni nel nord della Siria e definisce infatti i tre cantoni non curdi bensì una ‘confederazione di curdi, arabi, siriaci, aramaici, turkmeni, armeni e ceceni’.

Il Contratto sociale afferma l’uguaglianza di tutti gli individui e di tutte le comunità di fronte alla legge, l’uguaglianza dell’uomo e della donna, garantisce i diritti umani e le libertà sociali così come stabilito dalle convenzioni internazionali a cui si richiama, riconosce e tutela i diritti civili, politici, culturali, sociali ed economici ma anche quelli etnici, linguistici, di genere, il diritto alla salute, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, i diritti dei bambini. Definisce l’autonomia del sistema giudiziario ma un sistema nuovo che rifiuta la scelta tra etica e legge – nella convinzione che ‘una società senza coscienza sia una società perduta’ – e replica il modello assembleare, con commissioni e consigli di giustizia che mirano alla riabilitazione non alla punizione, alla riparazione, alla pace sociale.

Anche la polizia, Asayîs, risponde alle strutture che operano dal basso, nelle scuole di polizia tutti sono tenuti a seguire dei corsi di risoluzione dei conflitti e di teoria femminista, prima di impugnare una pistola. Le unità di Asayîs si rifiutano di essere definite forze di polizia perché ‘più che servire lo Stato, servono il popolo, perché sono il popolo’.

Un modello di società ecologista, pur in mezzo alle rovine delle città distrutte dalla guerra, dove anche la filosofia sanitaria parte dalla convinzione che il problema sta nel fatto che ‘l’essere umano non è più concepito come parte della vita’.

La difesa del territorio è affidata ad una rete di milizie popolari, costituite dalle unità dell’Ypg e dell’Ypj. La prima è una formazione mista, in cui le donne possono assumere anche ruoli di comando, la seconda è esclusivamente femminile. E sono loro che hanno cacciato l’Isis da Kobane dopo un lungo assedio.

Sono molte le testimonianze delle combattenti dell’Ypj raccolte nel libro edito da Elèuthera, che dalla casa delle donne di Kobane o sul fronte hanno raccontato la loro lotta. L’assedio di Kobane ‘è stato terribile ma non eravamo solo noi a combattere, con noi c’era tutto il mondo. Eravamo connessi gli uni con gli altri e tutti alla terra; la terra dell’umanità’.

Donne con veli gialli e rossi riunite sotto la bandiera dell’Ypj che hanno dato vita ‘all’unica forza militare che si è dimostrata capace di sconfiggere l’Isis sul campo’. Eroine che nella battaglia di Sinjar in Iraq, dell’agosto del 2014, hanno salvato gli yazidi dal genocidio. Le donne guerriere, che combattono contro l’Isis e si tolgono la vita quando è ormai certo che stanno per cadere nelle mani degli uomini del Califfato, suscitano ammirazione e creano mitologie. Ma soprattutto le unità combattenti femminili (il 40% delle forze curde) che ora combattono anche a Raqqa, spaventano l’Isis, ne ha una paura viscerale, mistica. Al centro del culto della morte dell’Isis si colloca, infatti, la paura nei confronti delle donne, che si traduce nello stupro e nella schiavitù sessuale; la repressione, la violenza contro le donne non sono un aspetto marginale dell’impianto ideologico dell’Isis, anzi – sottolineano i saggisti – ne costituiscono il cuore pulsante. E la credenza diffusa tra i combattenti dell’Isis, che se venissero uccisi in battaglia da una donna sarebbe loro negato il paradiso, fa delle militanti del Rojava ‘il loro peggiore incubo’.

Nella raccolta pubblicata da Elèuthera ci sono le storie di giovani che non sono più tornate dal fronte, come Çiçek partita a 13 anni e morta a 17 anni combattendo a Kobane, e le testimonianze di molte combattenti schierate in prima linea contro l’Isis. Molte ragazze in quella poverissima regione della Siria occidentale ‘sono state spinte a combattere da una forte ideologia che prometteva non solo la libertà del Kurdistan, ma anche l’uguaglianza, la fine dell’oppressione delle donne’ . ‘Con la promessa della paritá di genere e di un accesso al potere a lungo negato, le idee di Öcalan hanno toccato le donne nel profondo. La tentazione di liberarsi di un Medio Oriente maschilista è stata così forte che, in un paio di anni, delle giovani ragazze di campagna dalle guance rosse si sono trasformate in guerriere talmente sicure di sé da essere pronte a uccidere o morire’.

Le combattenti donne sono e sanno di essere qualcosa di più che guerrigliere. ‘Quella che stiamo combattendo – spiega una di loro, Aryan, nel saggio – è una guerra contro il sistema dominante, l’Isis è solo una deriva dall’imperante sistema patriarcale. Il nostro approccio alla disparità di genere, va a toccare le sue radici storiche. Se le donne non sono libere neppure gli uomini o la società lo sono, perché in queste condizioni è la libertà stessa che non può esistere. La nostra principale battaglia è volta liberare tutta la società, che è composta da uomini e donne. Non combattiamo solo per il popolo e per le donne curde, ma per la liberazione di tutti i popoli e di tutte le donne.’

La guerra ha accelerato il processo di trasformazione della società. L’Ypj ha dimostrato che le donne possono fare qualsiasi cosa. Le donne dell’Ypj ‘hanno abbattuto tutti gli stereotipi feudali di quest’area geografica’. Dice Sozda una comandante dell’Ypj: ‘Non siamo solamente donne che combattono l’Isis, ma donne che lottano per cambiare la mentalità della società e mostrare al mondo cosa sono capaci di fare’.

A Kobane la gente apre le porte, come raccontano le testimonianze raccolte da chi ha voluto vedere di persona questo nuovo mondo, si incontrano persone ‘aperte e accoglienti’, ‘animate da folle generosità e dallo splendore della loro causa: un inedito del Medio Oriente e forse della storia del mondo intero’. Ti dicono: ‘Benvenuti! Questa città è vostra! Appartiene all’umanità. Noi qui costruiamo la vita’.

La battaglia di Kobane e l’immagine delle combattenti hanno conquistato le prime pagine in tutto il mondo, ma i media non sembrano aver notato l’esperimento democratico nel Rojava. Perché tale silenzio? Quanto è reale la nuova democrazia del Rojava? Se la battaglia condotta nel Rojava è la prima di una guerra per il futuro dell’intera regione, da che parte si schiererà il resto del mondo? La raccolta di saggi di Elèuthera cerca di rispondere anche a questi interrogativi.

David Graeber, antropologo americano che dopo 10 giorni in Rojava è ‘ringiovanito 10 anni’, fa un parallelismo con la Spagna del 1936 e per lui ‘la regione autonoma del Rojava rappresenta oggi uno dei pochi fari, forse il più luminoso, in grado di penetrare l’oscurità della tragedia siriana’, e non ha dubbi: ‘Questa è un’autentica rivoluzione’. Che va al di là del fatto che sono persone coraggiose che combattono l’Isis. ‘Non è un’operazione di facciata. In molti ritengono che i rivoluzionari siano solo esponenti del Pkk, un’organizzazione autoritaria e stalinista che fingerebbe di aver abbracciato i principi della democrazia radicale. Non è così, loro sono del tutto sinceri. Questa è un’autentica rivoluzione. Ed è proprio questo il problema. Le grandi potenze hanno abbracciato un’ideologia secondo la quale le vere rivoluzioni non possono più avvenire’.

Per Peter Lamborn Wilson ‘è semplice e cristallino’: il Rojava ‘rappresenta il principio della vita, il califfato quello della morte. In un mondo moderno così complesso stupisce possa esistere un situazione così chiara e netta: il Rojava è il bene, L’Isis è il male, l’Isis deve essere distrutto, il Rojava deve essere salvato’.

Salih Muslim, leader curdo siriano nei suoi interventi pubblici ha spesso rimarcato che la battaglia combattuta nel Rojava non mira esclusivamente a sconfiggere l’Isis ma è anche una lotta per una precisa idea politica: la democrazia radicale. ‘In realtà – spiega – se siamo sotto attacco è proprio in ragione del modello democratico che stiamo realizzando, il fatto che questi modelli alternativi di democrazia stiano vedendo luce nel Rojava preoccupa molto le forze locali e i governi, il nostro sistema li spaventa. Abbiamo realizzato una democrazia senza Stato’. E l’invito è aperto: ‘Andare a Kobane, incontrare le persone, ascoltarle, provare a capire cosa stanno facendo. Ci sono stati molti pregiudizi sulla nostra rivoluzione ma ogni volta che persone esterne hanno visitato le nostre comunità, discusso con i loro membri hanno cominciato a loro volta a credere che la democrazia radicale fosse la scelta giusta. Chiunque può venire e vedere con i propri occhi che la nostra è una rivoluzione per la quale si combatte, ci si impegna ogni giorno. E’ una rivoluzione di vita e di conseguenza una battaglia per l’umanità’.

‘La storia del Rojava sembra un racconto epico’, scrive Dilar Dyrk, troppo per essere vero? Forse ‘non è la risposta a tutto, forse non sarà un sistema perfetto ma certamente é un manifesto di vita. Il Rojava è davvero una rivoluzione di popolo, il coraggioso tentativo di immaginare un mondo diverso’. E forse va difeso in quanto tale.

‘Rojava, una democrazia senza Stato’, edizioni Elèuthera, contiene i saggi di Murat Bay reporter turco, Janet Biehl ecofemminista americana, Dilar Dirk attivista e femminista curda, El Errante-Paul Z. Simons giornalista e attivista americano, David Graeber antropologo americano, Havin Güneser giornalista e attivista curda, Evren Kocabiçek giornalista turca, David Levi Strauss critico d’arte americano, Salih Muslim Mohamed politico curdo siriano, Pinar Ögünç giornalista turca, Jonas Staal artista olandese, Michael Taussig antropologo australiano, Newsha Tavakolian fotoreporter iraniana, Nazan Üstündagsociologa turca, Bill Weinberg giornalista e blogger americano, Peter Lamborn Wilson scrittore e attivista americano.