Italia e Svizzera a confronto su come difendere il “Made in”

Convegno a Roma organizzato dall'ambasciata elvetica

APR 29, 2015 -

Roma, 29 apr. (askanews) – Italia e Svizzera a confronto sulle regole a tutela del “Made in” e dei relativi marchi collegati. Da un lato l’agilità operativa della Confederazione elvetica, ovviamente padrona di normare la questione in piena autonomia. Un quadro che l’Italia guarda magari con una certa invidia, dovendosi muovere su binari europei alla ricerca di compromessi non facili con altri Stati, che magari non hanno le stesse priorità e che in concreto ha significato non riuscire a chiudere una revisione delle regole nemmeno durante il semestre italiano di presidenza dell’Unione. Ma che superati gli ostacoli consente, almeno in teoria, di estendere le tutele a tutto il territorio comunitario. Se ne è parlato ad un convegno organizzato a Roma dall’ambasciata di Svizzera.

Relatore principale è stato il professore Felix Addor, direttore dell’ufficio federale svizzero di tutela delle proprietà intellettuali. “Il valore aggiunto legato al marchio Swiss Made varia dall’1-2 per cento dei macchinari, comunque significativo quando rapportato ai loro volumi di export, al 20 per cento dei prodotti tipici a fino oltre il 40 per cento dei beni di lusso”, ha spiegato. “Il marchio Svizzera gode di una reputazione molto solida, quindi si traduce in valore aggiunto per chi lo usa e in quanto tale va protetto”.

La Svizzera quindi ha elaborato una nuova normativa che prevede diversi requisiti su 4 grandi raggruppamenti di attività. Le imprese devono rispettare questi parametri per potersi fregiare della denominazione “Swiss made” e dell’ancor più riconoscibile croce svizzera, bianca su sfondo rosso. Prevedono ad esempio l’obbligatorietà dell’origine elvetica sulle materia prima con soglie variabili, a seconda della disponibilità pratica di un bene nella stessa Confederaizone. Ad esempio si va dal 100 per cento di latte svizzero per i formaggi, a frazioni meno elevate su beni che necessariamente vanno almeno in parte reperiti all’estero.

Alcune imprese possono trovarsi in difficoltà con i nuovo parametri. Ma “dobbiamo distinguere l’interesse delle aziende, che magari sono in affanno per rispettare le soglie, dall’interesse di tutti i consumatori che pagano per il marchio Svizzera”, ha spiegato Addor.

Secondo Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia di Confindustria, l’Italia invece deve confrontarsi sulla questione “con una Europa spaccata in due. Da un lato i Paesi manifatturieri”, favorevoli a tutelare i marchi, dall’altro quelli che invece non hanno o non hanno più una forte manifattura e sono molto meno disposti ad appoggiare politiche energiche su questo fronte. Ne deriva una mancanza di chiarezza che per la Penisola si traduce in 70-100 mila posti di lavoro i meno, con la contraffazione che ha un valore stimato di 7 miliardi di euro l’anno, ha detto Marenzi, di cui il 70 per cento nell’abbigliamento.

“Italia E Svizzera sono entrambi Paesi con molti marchi forti”, ha osservato l’ambasciatore Giancarlo Kessler, ricordando come gli orologiai della Confederazione già a metà ‘800 si ponessero il problema di come tutelarsi dalla contraffazione.

E proprio dagli orologiai svizzeri vengono proposte delle ricette di azione, tramite il presidente della loro federazione Jean-Daniel Pasche: “Innanzitutto bisogna prendere contatto con le autorità dei Paesi” da cui arriva la contraffazione, magari impiantando uffici locali. “Secondo bisogna collaborare con le autorità. Terzo – ha spiegato – bisogna organizzare programmi di formazione per le forze dell’ordine e il personale coinvolto nella lotta alla contraffazione” in tutte le aree in cui si effettua l’azione di contrasto. “Qui non si tratta di fare protezionismo – ha voluto puntualizzare Addor, in conclusione – si vuole semplicemente definire chi può usare il valore aggiunto di un nome”, che ha una sua territorialità.