Visionari e pragmatici: i 20 anni della Tate Modern di Londra

"Siamo chiusi, ma stiamo già guardando al futuro del mondo"

MAG 12, 2020 -

Londra, 12 mag. (askanews) – La ciminiera e la torre; il Tamigi e il Globe Theatre; lo Shard e il Millennium Bridge. Negli ultimi 20 anni Londra è diventata una metropoli diversa, ha riscritto la propria identità in senso plurale, anche grazie a quella ex centrale elettrica che, proprio nel 2000, è diventata un museo: la Tate Modern. Un’istituzione culturale pubblica dedicata al moderno e al contemporaneo che in due decenni ha saputo, oltre che raggiungere i 100 milioni di visitatori, anche cambiare volto al quartiere della Southbank, mostrando tutte le potenzialità collaterali di un grande progetto museale, che sono solo in parte legate all’arte, ma assumono soprattutto la veste di potenzialità sociali.

Per questo quella pesante struttura postindustriale ha saputo diventare, ovviamente con la geniale collaborazione degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, un luogo mobile e vitale da molti punti di vista, non meno iconico del ponte, così apparentemente diverso eppure ormai a essa simbiotico, che la collega all’altra sponda del fiume, dialogando alla pari con la cupola storica di Saint Paul e con l’inafferrabile skyline della City.

Come gran parte dei musei d’Europa, di cui è in qualche modo diventata capofila, oggi la Tate Modern è chiusa per l’emergenza Coronavirus, ma l’apparente silenzio che la circonda in queste settimane continua a portare con sé il clamore di ciò che lì è successo, a partire dal 12 maggio del 2000, giorno della grande inaugurazione. E alcune delle cose successe, soprattutto in quello spazio cattedrale del contemporaneo che è la Turbine Hall, sono diventate parte dell’immaginario collettivo, non solo dell’arte. Pensiamo per esempio a “The Weather Project” di Olafur Eliasson, quel sole dentro il museo che ha cambiato per sempre il modo in cui gli spettatori pensano se stessi all’interno di una mostra oppure alla straordinaria e totalizzante installazione di Juan Muñoz, “Double Bind”, quell’universo sotterraneo unico che poi è stato ricreato anche in Pirelli HangarBicocca a Milano. O ancora all’intervento di un genio sfuggente come Philippe Parreno, che con “Anywhen” ha fatto vivere gli spazi del museo seguendo i ritmi biologici di microrganismi, divenuti in qualche modo curatori non solo della sua mostra, ma dell’intero ecosistema della Tate.

La trasformazione dei Tanks in spazi per le immagini in movimento; l’ampliamento dei piani espositivi e degli uffici; le molteplici collaborazioni con altre istituzioni culturali; la capacità di non avere paura di dare spazio a interventi, come quello di Doris Salcedo, che hanno letteralmente spaccato il museo; il pragmatismo di sapere che per poter portare avanti progetti di ricerca d’avanguardia occorre realizzare anche mostre capaci di attrarre pubblico di massa; l’attenzione alla pluralità e ai diritti, nonché all’ambiente… la Tate Modern in 20 anni ha rappresentato tutto questo, che forse si può in qualche modo sintetizzare attraverso la somma di due grandi retrospettive, quella ancora su Eliasson e quella su Damien Hirst, unite alla recente grande installazione di Kara Walker nella Turbine Hall.

In un messaggio per l’anniversario, la direttrice Frances Morris ha scritto che “oggi le luci possono essere spente, le celebrazioni sospese, ma, come sempre, noi stiamo guardando avanti, per immaginare il futuro dell’arte, e del mondo”. E allora, in questa prospettiva di Tempo dilatato, che già sembra abbracciare le possibilità di un futuro, che la stessa Morris ipotizza caratterizzato da una fruizione meno frenetica della cultura, in questa prospettiva è naturale chiudere con l’immagine di un altro evento iconico come la proiezione di “The Clock” di Christian Marclay: un intero universo immaginifico nello spazio di 24 ore, seduti su divani bianchi all’interno di un museo, a quel punto già diventato grande come il mondo.