Bolaño oltre la propria mitologia: la meraviglia dei “Cowboy”

Una nuovo libro postumo del grande scrittore cileno (Adelphi)

GEN 28, 2020 -

Milano, 28 gen. (askanews) – Roberto Bolaño è diventato, soprattutto dopo la sua morte, un mito letterario, e la mitologia, comunque, porta con sé elementi problematici, complessi, talvolta fuorvianti. Certo, ogni artista quando lascia andare libera nel mondo la sua opera sa di averla perduta esattamente in quel momento, ma ci sono tante gradazioni di questa perdita. Quella che si innesca quando uno scrittore (ma vale per qualsiasi altra forma d’arte, ovviamente come per la cronaca, lo sport, lo spettacolo…) viene assurto al livello di mito è la più radicale delle perdite. Per questo a ogni nuovo tassello che si aggiunge, nel caso di Bolaño a ogni nuovo testo ritrovato che arriva in libreria, accanto alla straordinaria euforia per la possibilità di tornare a leggerlo, resta un alone di timore, una sorta di nebbia di incertezza di fronte all’effettivo valore che quel testo potrà avere, al di là della mitologia che spesso è anche una mitologia del mercato. Però stiamo parlando di Roberto Bolaño, ossia di uno scrittore che, seppur in modo tragico dal punto di vista umano, ha già rivoluzionato l’idea di postumo con quel capolavoro totale e assoluto che è stato “2666” (in una maniera simile, anche se se ne sono accorti molti meno, ed è un peccato, lo ha fatto anche David Foster Wallace con “Il Re pallido”, ma questa è un’altra storia). E poi c’è la sua scomparsa a soli 50 anni, nel pieno di un decennio di scrittura febbrile, situazione che ha portato un altro grandissimo scrittore come Enrique Vila-Matas a citare Kafka per descrivere anche il modo in cui Bolaño viveva il suo mestiere: “Scrivere – diceva Franz a Felice Bauer – è un sonno profondissimo. Come la morte”. Kafka e il Cileno, ma anche Perec, nella lettura dello scrittore spagnolo, come figure intrecciate dalla ossessione di essere autori profondamente consapevoli di poter solo riflettere sulla propria “esistenza cieca”, in un atto creativo estremo e definitivo. Come la morte, appunto.

E dunque il postumo, in un certo senso come ulteriore sublimazione di questi aspetti umbratili? Forse, ma anche come oggetto letterario che decidiamo di interpretare alla luce di ciò che conoscevamo già, di ciò che abbiamo disperatamente amato e perduto, cercando, quasi come una follia, tracce delle storie passate, dei volti passati, delle nostre lacrime passate. Il rischio esiste ed è comprensibile: un mito è condannato a essere sempre se stesso in un certo senso, pena la perdita dello status. Ma, anche qui, Roberto Bolaño, gioca la partita a modo suo, lo ha fatto con “Il Terzo Reich”, lo fa anche con l’ultimo titolo che esce inedito per Adelphi, “Sepolcri di cowboy”, una raccolta di tre testi diversi, incompiuti, nebbiosi e, alla fine, in larga parte magnifici. Perché ci ricordano le atmosfere dei suoi capolavori? Sì, ma solo in parte, e non in modo decisivo, anzi, il fatto che alcune scene siano una sorta di versione alternativa di passaggi già letti altrove, su tutti in “Patria” il dialogo tra il narratore e un pazzo, entrambi internati dalla giunta golpista, mentre osservano le evoluzioni nel cielo di un aereo militare che sembra scrivere frasi nel cielo, è una prova definitiva che non è la “ripetizione” a motivare la passione per queste pagine. Il punto è che qui, nel testo postumo, la scena è addirittura migliore della “originale” in “Stella distante”, la sua lontananza da noi, il suo essere una pratica di follia, come lo avrebbe pensato anche H.P. Lovecraft, ha la forza di una pietra miliare al di là della sua omologa nel libro, per così dire, ufficiale; libro che resta un romanzo compiuto, uno dei più forti di Bolaño, il vero testo breve che spalanca il suo universo al lettore magari intimorito dalla mole di “2666” o de “I detective selvaggi”, mentre qui “Patria” resta una raccolta diseguale di frammenti. Schegge diamantine, ma sfuggenti a una forma superiore.

Il punto (come praticamente tutto in Bolaño) particolarmente complicato e bruciante è che il frammento è anche la misura su cui sono stati costruiti, con una pazzesca intuizione letteraria (mista a una discreta dose di mestiere, ma scrivere è il mestiere di uno scrittore), i grandi romanzi, i romanzi infiniti che sono le colonne portanti su cui si è costruita prima la grandezza (selvaggia, appunto), poi la fama e quindi la mitologia dell’ex poeta infrarealista convertitosi a narratore (di razza, lo scrive sempre Vila-Matas) anche perché, scopertosi malato, ha cercato di lasciare qualcosa ai suoi due figli, Lautaro ed Alexandra, più volte definiti la sua “unica patria”. L’infinito per frammenti, la chiarezza attraverso una costante oscurità, l’universale attraverso figure ultra particolari, come Ulises Lima o Benno von Arcimboldi: questo è stato Bolaño e questo è ancora, in modi nuovi – è questo il punto decisivo – quello che succede nei “Sepolcri di cowboy”, dove il ritorno della voce che conoscevamo genera una sensazione di nuova estraneità, nel senso di una nuova sensazione di essere di fronte a qualcosa di straniero, come lo era il Mersault di Camus e come lo era Josef K. di Kafka e come lo erano e continuano a esserlo i realvisceralisti di Città del Messico. E non importa se questa sorta di elogio del frammento fa cadere la struttura del ragionamento sulla mancanza di forma superiore dei “Cowboy”, tanto meglio: la contraddizione è un’altra delle cose che si imparano ad amare leggendo Bolaño. (Non vale come giustificazione, è evidente, ma per lo meno speriamo che crei un’atmosfera, che possa dare un’idea della natura complessa di questo libro, ndr).

Per concludere guardiamo a quel testo breve che chiude il libro, intitolato “Commedia dell’orrore in Francia”, che potremmo anche decidere di elevare a esempio di cosa è stato Bolaño, di quanto ci ha permesso di capire della sua scrittura e di quanto ci ha negato, dove la quota invisibile, la negazione, ha tanta importanza quanto l’affermazione. Un telefono pubblico che squilla (verrebbe da dire “per chi suona la cabina”, se Hemingway non si offendesse), un giovanissimo poeta che risponde, in mezzo a un quartiere non suo, e la telefona è per lui, da lontano, per raccontare una storia di fogne parigine e surrealisti clandestini, che dura fino all’alba. Roberto Bolaño, con tutti i suoi limiti, le sue maniere e la sua sconfinata grandezza è stato qualcosa di simile a questo racconto: sporco, a tratti insensato, sempre sull’orlo di una tragedia spaventosa, quasi mai detta. Quindi, in ultima analisi, perfetto, e se da qui è nata una mitologia non è poi colpa dello scrittore.

Chiudiamo ancora con Vila-Matas, il cui testo è raccolto nell’antologia “Bolaño Selvaggio”, da poco tradotta in italiano per la casa editrice Miraggi, che ricorda come Roberto scrivesse senza sperare nulla, e questa mancanza di speranza è stata spesso la grande forza della sua opera, la “serietà eccezionale di molti momenti della sua scrittura”, cosciente della tristezza della vita, ma anche della possibilità di amarla “con intensità, questa tristezza, che alcuni chiamano letteratura e altri lacrime perdute”. Lacrime nella pioggia, diceva il replicante Roy Baty. Neve su Venezia, guardava Arcimboldi. In fondo era la stessa cosa.