Berlinde De Bruyckere: l’arte come dialogo oltre la violenza

In Fondazione Sandretto Re Rebaudengo la mostra "Aletheia"

NOV 12, 2019 -

Torino, 12 nov. (askanews) – Potrebbe essere uno spazio aperto, un campo innevato, un luogo sospeso nel tempo. Potrebbe essere una vicenda straziante, colma di dolore oltre l’immaginabile, oppure solo un paesaggio, che ha in qualche modo assorbito l’incubo della Storia e se ne è preso cura. Potremmo essere in molti luoghi, ma siamo dentro la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino e quello che stiamo guardando sono una serie di lavori dell’artista belga Berlinde De Bruyckere, appositamente concepiti per la mostra “Aletheia”. Le piccole “colline” che compongono questo paesaggio nel bianco sono strati di pelli di animali sovrapposte, ricoperte poi con del sale. Ed è la stessa Berlinde a fornirci una prima panoramica sui lavori: “Sono rimasta enormemente colpita – ha raccontato l’artista ad askanews – quando ho visitato un laboratorio per il trattamento delle pelli ad Anderlecht, prima che venissero inviate nelle fabbriche per la lavorazione. In quel luogo sono stata letteralmente travolta dalla quantità delle pelli e dalla quantità di morte”.

Ma la grandezza del lavoro (e del pensiero sul lavoro) di De Bruyckere sta nella capacità di non fermarsi a un solo livello di percezione. “Allo stesso tempo però – ha aggiunto – sentivo che stavo guardando qualcosa di meraviglioso. Stavo guardano un rituale: uomini che si prendevano cura di pelli che erano appena arrivate dai mattatoi senza alcun valore, erano spazzatura tolta dal corpo di un animale che era stato vivo. Ma in quel luogo si cominciava a dare un nuovo futuro a quella pelle. E quando guardo questo spazio, lo vedo silenzioso e calmo, non ha più niente a che fare con quella tragedia e con quelle morti, si tratta più di compassione e del prendersi cura e del proteggere, in un certo senso”.

Ascoltare Berlinde De Bruyckere è affascinante come fare esperienza dei suoi lavori, che già alla Biennale di Venezia del 2013 avevano lasciato un segno indelebile, con un memorabile intervento nel Padiglione del Belgio. “Mi sento molto responsabile per ciò che faccio – ha proseguito l’artista classe 1964- ed è vero che molto spesso nei miei lavori c’è un elemento di violenza, ma questo è come è il mondo oggi, il mondo è molto violento. Ma ci sono molto pochi modi per fare i conti con questa cosa, per parlarne e per reagire a questa violenza. Io credo che attraverso l’arte noi possiamo aprire un dialogo per permettere alle persone di cominciare a pensare a questo aspetto”.

È qui, esattamente in questi momenti, che il contemporaneo gioca la propria partita, contro ogni forma di banalizzazione o riduzione grottesca, qui artisti come Berlinde mostrano come si possano aprire strade che vanno oltre gli schemi e che arrivano al punto fondamentale di ogni ragionamento culturale: l’umano. “Quando ero in quel laboratorio, dove c’era così tanta morte – ha detto ancora – ho pensato immediatamente alle fosse comuni e ai campi di sterminio, ma anche ai rifugiati che oggi muoiono durante i loro viaggi. Per me tutto questo ha un forte legame con ciò che sta accadendo oggi nel mondo e come artista dovrei avere la capacità di usare questa reazione inizialmente molto personale per tradurla in qualcosa d’altro”.

Per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo la mostra è a propria volta un’occasione per mettersi in gioco, ripensando anche la geografia degli spazi. Irene Calderoni è la curatrice dell’esposizione. “Non è solo un racconto retrospettivo sulla sua grande opera artistica, sulla sua ricerca, che da sempre ci appassiona – ci ha spiegato – ma qualcosa di nuovo, ispirato da questo luogo, che porta anche a compimento una serie di ragionamenti e linee nuove di ricerca che caratterizzano il suo lavoro, quindi questa grande mostra istituzionale ci rende particolarmente orgogliosi”.

Per concludere, con addosso un’emozione che non capita spesso di incontrare, chiediamo a Berlinde De Bruyckere se nel suo lavoro, che in mostra è raccontato anche da alcuni straordinari quadri, che sono in realtà un altro modo di pensare la sua pratica scultorea, le chiediamo se possiamo usare la parola “speranza”. “C’è sempre nel mio lavoro un livello di speranza – ci ha risposto – che dovrebbe portare su un altro piano, quello che crea la possibilità del futuro”.