Milano dopo la Art Week: miart vera fiera e dialogo con la città

Ricerca e mercato, mostre importanti e una fiera "consapevole"

APR 10, 2019 -

Milano, 10 apr. (askanews) – I giorni di una fiera sono sempre vibranti e caotici, soprattutto se si tratta della più importante fiera d’arte del nostro Paese. Poi si smontano gli stand e si comincia a pensare all’anno dopo, lasciando spazio, come succede ormai stabilmente qui a Milano, a un’altra fiera e a un altro popolo di appassionati, solo in parte contiguo. Ma, dopo averne tanto scritto prima, forse ha senso anche tornare dopo su miart e su quello che ha rappresentato, a maggior ragione mentre le vie della città si riempiono di installazioni e opere che sfruttano la cassa di risonanza della Design Week ma che, in fondo, spesso afferiscono al mondo dell’arte contemporanea, e basti citare la presenza al Planetario di un super protagonista come Tomas Saraceno, peraltro con una mostra piccola, ma magnifica.

L’edizione 2019 di miart ha rappresentato, forse come mai prima, l’energia di un sistema che unisce Fiera Milano – un’azienda che sta seriamente aggiornando la propria natura (pur con i tempi e i modi che la propria dimensione consente), le gallerie e le istituzioni culturali (il Comune ovviamente in primis), ma anche il pubblico, apparso quest’anno meno stravagante e più consapevole e, in ogni caso, attore protagonista di un clima di effervescenza che ci sembra essere il vero più importante risultato della manifestazione diretta da Alessandro Rabottini. Che ha detto fino allo sfinimento che la fiera deve essere una piattaforma di attivazione per altre energie e che deve essere, in primo luogo, una fiera, per quanto curata e sofisticata e ricca. Questo è il secondo punto che vale la pena ricordare oggi: miart è stata una fiera, e come tale ha parlato un linguaggio fieristico, ha accostato ricerca e idee (come la sezione On Demand) a solidi aspetti commerciali, ha pensato l’opera d’arte come oggetto di cultura che deve stare sul mercato, le due cose insieme. Senza sminuire nessuna delle due componenti.

Può sembrare scontato, ma farlo in modo dichiarato e con l’autorevolezza scientifica dei soggetti coinvolti, oltre che con la grandezza di certi artisti in fiera (scriviamo il nome di Paul McCarthy, ma c’era anche un igloo di Mario Merz, tanto per dire), non è cosa banale. Come non è banale il fatto che il moderno, affidato alla supervisione di Alberto Salvadori, abbia giocato la sua parte rilevante, senza diventare opprimente verso il contemporaneo, ma agendo da piattaforma di possibilità per le ricerche più interessanti venute dopo. Anche questo è il ruolo di una fiera, che non è una mostra, ma un luogo di scambi. “La città e gli scambi” diceva Italo Calvino (anche “La città e gli occhi” e anche qui ci siamo), ed è stato esattamente così, per fortuna.

Intento più volte ribadito dall’assessore Filippo Del Corno, miart si è poi estesa fuori, in una serie di aventi che non hanno la compulsività del Fuorisalone del Mobile, ma dotati di una intensità meno “mordi e fuggi”. Nell’impossibilità di avere visto tutto della Art Week, alcune immagini restano difficili da eludere: su tutti i caselli daziari di Porta Venezia ricoperti di iuta da Ibrahim Mahama per la Fondazione Trussardi per un progetto che parla di scambi (appunto), globalizzazione, ma in fondo parla di libertà. Farà anche il verso a Christo, come hanno notato in molti, ma lo fa in modo diverso, in un’ottica di inclusione e di prospettiva che vive certo di una possibile influenza, come tutto, ma poi va altrove. C’è la firma di Massimiliano Gioni e forse ciò suscita invidie nel piccolo mondo dell’arte nostrana, ma anche questo fa parte del gioco, che in ogni caso resta comunque di portata più ampia. Resta respiro d’arte, punto.

Altra mostra nata nel contesto della Art Week, ma destinata a essere qualcosa che oltrepassa la cornice dei sette giorni, è “Hypervisuality”, sei video installazioni dalla collezione Wemhoener che, dentro il barocco di Palazzo Dugnani, hanno costruito una sorta di mondo a parte nel quale l’esperienza visuale si è allargata, perfino oltre quelli che potremmo definire i contesti naturali e fisiologici di una mostra. Ma i film di Isaac Julien o dei MASBEDO, di Yang Fudong o di Julian Rosefeldt, sono vere e proprie opere d’arte capaci di mettere sul piatto il tema del visibile e dell’invisibile, del dicibile e del non dicibile. Da un punto di vista visivo, ma anche filosofico. E poi, per restare nel terreno delle dimensioni mentali più vaste, a Futurdome ha inaugurato un progetto di Ginevra Bria sempre sui video d’arte dedicato al concetto di ipertempo (“Hypertimes” si chiama la mostra), analizzato in modi diversi dallo sguardo filmico di dieci artisti molto contemporanei e consapevoli del medium utilizzato.

La settimana dell’arte insomma è passata, ma la Milano che crea, come dice Del Corno, il proprio pensiero creativo continua a lavorare e, cosa che più conta, continua a pensarsi come protagonista capace di dare voce sia all’avanguardia sia a narrazioni che possano essere più inclusive. In questo senso l’atteggiamento, per dire così, assunto da miart può rappresentare un buon canovaccio di partenza, sul quale ciascun protagonista – Fondazione Prada, Pirelli HangarBicocca, Fondazione Carriero, Intesa Sanpaolo, ma naturalmente anche PAC e Palazzo Reale, e accanto a loro tutti i galleristi e le fondazioni private – poi è chiamato a interpretare il proprio ruolo specifico, nei modi più diversi.