Salinger, ritratto delicato e complesso di uno scrittore puro

Esce anche in Italia la biografia di Slawenski (Newton Compton)

MAR 20, 2019 -

Milano, 20 mar. (askanews) – J.D. Salinger era uno scrittore nel senso più nitido del termine, una personalità complessa, passata attraverso il gigantesco trauma della Seconda Guerra mondiale e poi rimodellata intorno all’ossessione della scrittura. Su di lui, sul suo Holden Caulfield, sulla sua scontrosa maturità si è scritto e letto molto. Ora esce anche in Italia una biografia, scritta dallo studioso americano Kenneth Slawenski e pubblicata negli Stati Uniti nel 2010: “Salinger – La vera storia di un genio” (Newton Compton). E la sensazione, inattesa, è quella di una grande freschezza, di una “empatia”, come ha scritto Michiko Kakutani sul New York Times, che dà una forma a tutto il libro: pulito, preciso, non agiografico, ma che, come fanno i buoni romanzi (e come faceva anche Salinger), sa che è necessario prendersi cura dei propri personaggi, siano essi figure di finzione oppure una persona, uno scrittore, in carne, ossa e libri.

Con ancora impresso nella mente in maniera quasi indelebile il monumentale progetto di biografia polifonica di JDS realizzato sotto forma di libro e di film da Shane Salerno e David Shields, non era facile pensare un’altra strada da imboccare per raccontare lo scrittore newyorchese, eppure Slawenski fa proprio questo: offre ai suoi lettori (e pensiamo anche a se stesso, apparendo anche egli ispirato da una certa ossessione) la possibilità di una lettura alternativa, non tanto nel senso degli eventi o delle interpretazioni, quanto piuttosto nel modo di pensare lo stesso racconto della vita, e soprattutto della scrittura, di Salinger. Sì, perché il libro spalanca anche una gigantesca finestra su tutto ciò che, alla fine, non abbiamo letto, su tutto il lavoro che si è sempre mosso, come un magma incandescente e totalizzante, al di sotto della parte emersa dell’iceberg, ossia i quattro libri canonici, e per tanti versi rivoluzionari, che per decenni hanno rappresentato la bibliografia ufficiale dello scrittore. Quello che Slawenski fa, molto più di quanto non facessero Salerno e Shields, è documentare la costruzione di un’opera, che poi sarà per lo più invisibile, certo, ma nello stesso modo in cui sono invisibili le vite di tutti noi. Appaiono solo, come ha scritto W.G. Sebald (un altro grandissimo scrittore di iniziali) in certe particolari condizioni di luce, alcune mattine nel traffico di pendolari alla stazione di Liverpool Street. E dunque l’invisibilità può essere solo relativa, ancella del fatto che questa opera esiste (o è esistita).

Il Salinger di Slawenski è certamente il soldato che ha visto l’inenarrabile nella foresta di Hurtgen, sulle Ardenne, a Dachau, ma anche durante l’addestramento in Inghilterra, quando a Slapton Sands 749 reclute furono uccise durante un’esercitazione esposta al fuoco degli aerei tedeschi. Ma è anche l’uomo che per molti anni, perfino dalle buche di fango sul fronte francese, pensava che pubblicare sul New Yorker sarebbe stata la soluzione a tutti i problemi. E nella ricostruzione di Slawenski a pesare quanto – e a volte viene da pensare anche più – della fine della relazione con Oona O’Neill piuttosto che dello choc di saltare dai mezzi da sbarco a Utah Beach in Normandia la mattina del 6 giugno del 1944, sono stati i rifiuti editoriali o le modifiche non concordate che le riviste facevano ai suoi racconti. La voce di Salinger era totalmente quella dello scrittore, il resto, per quanto spaventoso e decisivo, era secondario.

D’altra parte però, e anche questo aspetto emerge in modo pacato, ma inesorabile dalla biografia, lo scrittore Salinger era uno scrittore puro, sia nella vocazione sia, per quanto sia possibile dirlo di chiunque, come persona che ha ostinatamente difeso la propria essenza di purezza, pagando dei prezzi, subendo delusioni, correndo il rischio costante – come poi nei fatti si è verificato – di restare fuori da tutto, lontano da tutti, a un certo punto perfino dall’unica cosa veramente sua, la scrittura. Qui, anche se il paragone ha molte asimmetrie e debolezze, Salinger ricorda per certi versi Roberto Bolaño, entrambi dispersi – seppur in modi diversi – in una vita che non riusciva a essere solo letteratura, anche se in fondo lo era. E lo era in modo ostinato e totalizzante, in modo, hanno detto di Holden, infantile. La capacità di avere messo in luce, con intelligenza e delicatezza, ma senza falsi schermi, questo aspetto cruciale, emerso con un procedimento quasi maieutico pagina dopo pagina, è forse il principale pregio del libro di Kenneth Slawenski.

“Sapevo che avevano tutti ragione e io torto” dice proprio Holden in un passaggio del racconto “I’m Crazy”. Senza stare a disquisire sul valore modestamente universale dell’affermazione (peraltro indiscutibile) quello che conta adesso, al tempo dell’assertività spesso ottusa e sempre autoreferenziale dei social network, è ricordarsi del fatto che una delle più grandi lezioni letterarie del secondo Novecento è stata costruita, con tutta la forza che un’operazione di questa portata richiede, con tutto il lavoro che richiede, su un’affermazione di questo tipo. Probabile che il “genio” di cui dice Slawenski stesse proprio in questo modo di essere scrittore e di pensarsi scrittore di Jerome David Salinger.