L’anno del #MeToo: il 2018 dell’arte nella classifica di ArtReview

L'attivismo e la difesa dei diritti al centro del contemporaneo

DIC 27, 2018 -

Milano, 27 dic. (askanews) – L’attivismo che ritorna, anche in quello strano microcosmo, spesso molto autoreferenziale, che è il Sistema dell’arte. A scorrere la classifica dei Power 100 di ArtReview, una sorta di annuale Who’s Who dei personaggi più influenti del contemporaneo, salta subito all’occhio una clamorosa new entry al terzo posto: la campagna #MeToo, con tanto di hashtag. Come dire che la battaglia in difesa dei diritti e delle libertà delle donne è diventata protagonista assoluta pure della scena artistica, come dire che non sono più solo i galleristi, i grandi curatori e gli artisti a determinare il dove va questo mondo così difficile da definire, ma in questo grande gioco intervengono anche altre variabili e forme di adesione, come appunto il dire “me too”. A ben guardare, l’operazione di ArtReview è decisamente coerente con il modo in cui i Sistema dell’arte pensa se stesso (ed essendo la rivista uno degli interpreti ufficiali di tale modo di pensarsi attraverso il pubblico, ecco che il meccanismo comincia a innescare un domino di rimandi incrociati che sembra essere a propria volta una sorta di dimostrazione pratica di cosa possa essere l’arte contemporanea), ma è anche una chiarificazione del tentativo di stare maggiormente “dentro” la società, per quanto possibile, e sappiamo che questa possibilità varia, ma spesso ha margini limitati, almeno relativamente alla percezione collettiva, perché poi invece le pratiche artistiche sono sempre più spesso universali e aperte alla società, basti ricordare il lavoro di Theaster Gates, o anche solo certi interventi di arte pubblica (Anish Kapoor a Chicago, per capire banalmente di cosa stiamo parlando) e di architettura (e la Biennale di Venezia di questo 2018 che si va a chiudere era interamente dedicata alla riflessione sullo spazio libero e alla sua carica di potenziale liberatorio, Freespace).

Che la cultura si faccia agente di difesa di diritti e diversità è una buona abitudine della quale non ci si stufa mai, men che meno in questi tempi di Brexit, Trump e, sui nostri lidi italiani, di paura di ogni forma di straniero. Viene però anche un dubbio malizioso, ripensando al #metoo come “persona influente” nel mondo dell’arte, ossia che il podio la campagna se lo sia guadagnato anche per una sorta – lo scriviamo dal punto di vista di chi ragiona sulle teorie dell’arte e del suo racconto, non come forma di giudizio politico – di performatività, per una sorta di allargamento dei normali confini di ciò che comunemente chiamiamo “realtà” (che è sostanzialmente quello che fa l’arte, di continuo, ormai quasi involontariamente) che arriva a generare l’opera, l’artefatto che poi ci si svela essere più “vero” del nostro vicino di casa (avrebbe detto Umberto Eco) o del supermarket del consumismo contemporaneo (avrebbero potuto dire scrittori come Douglas Coupland o David Foster Wallace). Aderire come azione, ecco, è possibile che anche questo movimento – che non nega il valore dell’adesione, anzi, per molti versi lo amplifica – sia una delle chiavi di lettura del roboante ingresso in classifica della campagna scoppiata dopo il caso Weinstein.

A confermare, seppure in modi meno sorprendenti, il taglio decisamente vicino alla tematica dell’attivismo scelto per interpretare l’anno che si sta chiudendo da parte di ArtReview, anche il secondo posto per il pittore afroamericano Kerry James Marshall (nel 2018 era 68esimo), figura molto influente tra Chicago e Los Angeles, nei cui lavori il tema dei diritti civili è cruciale, ma anche il ritorno in top ten di Ai Weiwei (quinto, anche se qui la dose di marketing di se stesso non è mai trascurabile) e soprattutto la presenza tra l’ottavo e il decimo posto del ranking di, nell’ordine, Thelma Golden, direttore dello Studio Museum di Harlem (confermatasi nella posizione); Eyal Weizman (era 94esimo), intellettuale e architetto anglo-israeliano che da anni esplora nuove via di attivismo, con una lucidità di sguardo impressionante; Fred Moten (new entry), poeta anche lui afroamericano, noto per una radicale critica del presente. A loro si aggiungono, solo per restare nelle posizioni alte della classifica, una fotografa leggendaria come Nan Goldin (nuova entrata al 18esimo posto), che ha fatto dei racconti marginali e delle storie sbagliate la propria cifra artistica, e di Paul B. Preciado (23esimo, anche lui new entry), curatore e teorico al centro del dibattito su gender e identità.

Insomma, una specie di rivoluzione, che sembra figlia di un’America molto più obamiana che trumpiana. Tutte le rivoluzioni, però, per stare in piedi hanno bisogno di puntellarsi e, come è giusto che sia, la classifica di ArtReview è comunque guidata per il 2018 da un grande e potente gallerista, quel David Zwirner che tra Londra, New York e Hong Kong, scrive la stessa rivista, governa un “impero in espansione”. E al sesto posto, stabili in top ten da tempo, anche un altro storico brand di gallerie, rappresentato da Iwan e Manuela Wirth. Poi ci sono anche gli artisti, oltre a Hito Steyerl (che era prima e ora è quarta) e ai già citati Marshall e Ai Weiwei, è molto bello vedere che Wolfgang Tillmans si conferma all’11esimo posto, davanti a Pierre Huyghe (che era secondo, ma se sei Pierre Huyghe lo sai che non puoi stare sempre sul podio) e poco sotto (14esimo) troviamo David Hammons, altra figura storica della galassia della cultura afro.

Chiudiamo questo discontinuo resoconto citando altre due donne, questa volta italiane, che continuano a scalare posizioni: al 20esimo posto (+13 rispetto al 2017) c’è infatti Miuccia Prada, a conferma di quanto la sua Fondazione con l’apertura e il completamento della sede milanese abbia davvero cambiato le carte in tavola del contemporaneo anche (e finalmente!) nel nostro Paese. La seconda è Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, 61esima (+8 posizioni), che da Torino è sbarcata a Madrid e rappresenta un altro dei volti italiani di maggiore successo nel mondo della cultura internazionale, come ha certificato recentemente anche il New York Times.

E dunque, in attesa che nel 2019 il Sistema dell’arte trovi altre vie per aggredire il presente, possiamo archiviare il 2018 all’insegna di una ricerca che è andata a tutto campo e nella quale tutti, galleristi, direttori di musei, artisti, critici, hanno provato (50 anni dopo il ’68) a rimettere in gioco una militanza a più livelli. Che è profonda e critica, complessa e divergente. (Insomma tutto il contrario di quello che la parola “militanza” sta continuando a significare nel nostro dibattito politico interno).