Gli 82 anni di Don DeLillo, lo scrittore che ha visto prima

Omaggio al grande romanziere della precisione e della misura

NOV 21, 2018 -

Milano, 21 nov. (askanews) – Se ne sta spesso in silenzio, schivo, educato. Ma evidentemente, in questa apparente pacatezza, questo signore di origini abruzzesi osserva, registra, si sintonizza su frequenze che noi, quelli “normali”, non riusciamo a percepire. E poi scrive, con una dedizione alla precisione, con uno scrupolo che ne fa una delle voci più alte del presente, soprattutto una voce che riesce a essere in anticipo, a vedere prima degli altri e a raccontarla, questa visione. Senza clamore, Don DeLillo ha compiuto 82 anni: oggi, dopo la scomparsa di Philip Roth e nella perdurante incertezza biografica (e anche bibliografica visti gli ultimi lavori) di Thomas Pynchon, a lui spetta l’onere di dare un volto alla letteratura americana, di dare un indirizzo, verrebbe da dire, ma solo se non sapessimo che la cosa è al di fuori del carattere e degli intenti dello scrittore, e dell’uomo che vive accanto allo scrittore, in un equilibrio che, quanto meno da lontano, appare armonico e funzionale.

Nato a New York nel 1936, Donald Richard DeLillo ha guardato al mondo dei mass media, alla tecnologia, all’economia, ai gerghi tecnici, alla guerra nucleare, allo sport, ai rifiuti, al terrorismo per arrivare fino al recente fenomeno del transumanesimo. Da “Americana” del 1971 a “Zero K” del 2016, il suo percorso di scrittore, che ha subìto una svolta nel 1985 con “Rumore bianco”, è stato tutto condotto dentro il presente, ma non nel senso della cronaca, bensì in quello dell’adesione, della contaminazione, della mimesi con tempi che, ogni volta, ci sono apparsi nella loro valenza al tempo stesso ridicola e apocalittica, clamorosa e singolare, personale e politica. Come nella storia, ormai proverbiale anche a livello di terminologia, dell’Evento tossico aereo che è, in qualche modo, il vero protagonista di “Rumore bianco”. Tutto ciò però senza voler fare lezioni, ma con uno sguardo che con il facile senno del poi abbiamo buon gioco a definire filosofico, mentre in realtà era ed è prima di tutto, decisamente prima di tutto, letterario.

DeLillo, alla fine, ha catalogato il mondo sotto forma di romanzi e li ha stivati, come le capsule del futuro che decenni fa era di moda seppellire, in libri la cui precisa natura è diventata chiara solo dopo, tanto erano in anticipo sui tempi. Pensiamo a “Giocatori” del 1977, capolavoro segreto sulla vita e i dialoghi di coppia, ma anche romanzo che per primo ha portato la paura dentro Wall Street, anticipando di molto la crisi degli anni Ottanta che ha poi colpito la Borsa newyorchese, per esempio. Oppure, per restare in ambito di terrorismo, rileggere oggi “I Nomi” (1982) e “Mao II” (1991) ha la forza di una folgorazione, non perché raccontino “fatti” successivi, ma perché mettono in scena il modo di pensare e le conseguenze sulla nostra vita che hanno poi caratterizzato il perdurante periodo della “Guerra al terrore” (di cui, come ha scritto un teorico lucido come Mark Fisher, è diventato persino impensabile immaginare la fine). E ancora la naturalezza di atto d’arte che genera “Body Art” (2001), il piccolo romanzo perfetto che arriva dopo il colossale e forse definitivo Libro del Novecento americano, “Underworld” (1997), la storia del nostro presente ripercorsa attraverso la traiettoria di una palla da baseball colpita per un mitico fuoricampo e poi divenuta molto altro, dai bombardieri B-52 alle discariche di rifiuti radioattivi, dalla vita italoamericana negli anni Cinquanta alla follia assassina del Texas Highway killer. Divenuta, insomma, un’epopea letteraria sconfinata e chiarissima, viva come poche altre. Poi, negli ultimi anni, un libro come “Cosmopolis”, che ha chiarito in modo definitivo tutti i contorni della crisi economica del 2008, ma lo ha fatto cinque anni prima, essendo stato pubblicato nel 2003. Probabilmente ci mancava la capacità di capire che quasi ogni singola parola del romanzo sul miliardario 28enne in limousine Eric Packer era una spiegazione di ciò che sarebbe successo, negli stessi luoghi del romanzo, pochi anni dopo. Questo non toglie il fatto che nel libro le cose erano scritte, come romanzo certo, ma anche come molto altro. Fino ad arrivare a “Zero K” e al suo ragionamento, a tratti gelido a tratti mistico sui tentativi di vita oltre la morte: anche questo un tema che nel dibattito internazionale sta esplodendo solo ora, più di due anni dopo l’uscita del romanzo di Don DeLillo.

In questa occasione di anniversario, dopo tanti romanzi, possiamo però scegliere di chiudere con un racconto breve di fine anni Settanta: “Creazione”: nella storia di una coppia americana che non riesce a lasciare un’isola tropicale per tornare a New York, a causa di voli cancellati, liste d’attesa e altri inconvenienti da Paesi in via di sviluppo, c’è – in quella storia, che poi diventa una storia d’amore senza sovrastrutture (con una donna che non è la moglie del protagonista, ma una sua sorta di copia leggermente sbiadita, ma più “umana”) – il senso di una scrittura che è urgente nel suo modo di definire ogni singolo fatto come se fosse il più importante, ma che, al tempo stesso, sa gestire alla perfezione questa urgenza, trasformandola nell’unica cosa letteraria che è ancora più ossessiva: la misura. E la misura è il capolavoro di compromesso che lo scrittore fa con se stesso e con il pubblico, è la sostanza di cui è fatto il dialogo con chi leggerà, il patto tra i due poli della storia. È proprio nella elegante rassegnazione dei personaggi, nella inevitabile perfezione della cornice dentro la quale le vite si incrociano in maniere che solo da superficiali possiamo pensare essere casuali, come nel caso di “Creazione”, che sta una buona parte della grandezza del narratore Don DeLillo. Così vicino, seppur in apparenza da così lontano.