L’arte come dislocazione spaziale, Mike Nelson alle OGR di Torino

La mostra "L'Atteso": assenza, banalità e riconoscimento

NOV 6, 2018 -

Torino, 6 nov. (askanews) – E’ possibile essere pienamente consapevoli di trovarsi all’interno di uno spazio espositivo d’arte e, contemporaneamente, sentirsi con la stessa evidenza in un altro luogo, completamente diverso? E’ quanto accade, o per lo meno quanto è accaduto a noi, visitando l’installazione che l’artista britannico Mike Nelson ha realizzato nelle Officine Grandi Riparazioni di Torino. Un progetto, che dà vita alla mostra “L’Atteso”, che assume lo spazio delle OGR come totalizzante e di conseguenza, lo ripensa completamente, allargandone, e non sembra solo metaforicamente, i confini. Ma anche, come ci ha spiegato il curatore della mostra, Samuele Piazza, restituendo al luogo una sua vecchia identità.

“E’ sicuramente spaesante – ha detto Piazza ad askanews – lui spesso interviene su degli spazi trasformandoli in qualcosa di completamente diverso, ma è anche paradossalmente molto simile a quello che qua c’era prima del restauro, quindi tante delle persone che hanno contribuito al rinnovo quando sono entrate hanno avuto una reazione di quasi choc, dicendo ‘Oddio, siamo tornati a qualche anno fa’. Quindi è un’immagine estremamente potente, ma anche quasi banale”.

La “banalità”, ecco: un altro dei punti chiave della mostra. Perché quelle che Nelson ha installato sopra tonnellate di macerie e materiali di risulta sono auto per noi estremamente riconoscibili, sono luoghi (o non-luoghi, se preferite) della nostra quotidianità, sono uno spaccato di noi stessi, anche se forse non ne siamo consapevoli fino a quando è proprio l’arte contemporanea a mostrarcelo, facendoci intuire una possibilità di autoritratto (nostro) nello specchio di un’opera che, per definizione, dovrebbe essere altro da noi. Ma in quelle auto, negli oggetti che qualcuno ha dimenticato, o volutamente lasciato all’interno di esse, scorrono le rappresentazioni delle vite di molti, sebbene in quella specie di drive-in fallimentare tutto sembri apparentemente lontanissimo, come se fosse un set cinematografico, nel quale però va in scena la realtà, o, per lo meno, quella che a molti di noi appare come realtà. E un altro concetto chiave per entrare nel mondo di Mike Nelson è quello dell’assenza.

“L’assenza – ha aggiunto Samuele Piazza – è ciò che carica di significato questa situazione e queste macchine, ci sono diverse assenze: l’assenza del dato umano fisico, perché tutte le figure umane sono solo suggerite dalla loro mancanza e dai loro residui; c’è una mancanza evidente in questo schermo che promette di mostrare delle immagini, ma non le ha, e c’è l’assenza di una narrazione chiara. Ovviamente quello che a lui interessa è non fornire una narrazione facilmente seguibile, ma che le immagini suscitino narrazioni singole alle persone che si affacciano qui. Quindi un riferimento che per alcuni rimanderà a un mondo per altri a tutt’altro”.

Nell’ottica della mostra, ovviamente, entrambe le possibilità sono egualmente valide, perché sarà inutile cercare delle risposte tra le auto in sosta. Non sappiamo cosa sia successo; non sappiamo dove siano andate le persone che erano nelle automobili; non sappiamo perché il grande tabellone, verso cui quasi tutti i veicoli non possono fare a meno di indirizzare i propri fari, sia completamente vuoto. In ogni caso una risposta, provvisoria, alla fine forse arriva: è completamente vuoto perché è il luogo dove metaforicamente ogni spettatore è chiamato a scrivere il proprio racconto. Appare costruito proprio perché ciascun visitatore della mostra pensi che è stato messo lì per lui, per confonderlo e offrirgli un’altra possibilità, come se si trattasse di uno degli specchi di Jorge Luis Borges, che spesso aprivano strade verso nuove dimensioni.

Ovviamente il gioco di Mike Nelson, ma pure di tutti i nostri tempi, è quello di lasciare il pubblico nello spazio dell’attesa (si veda appunto il titolo della mostra), sulla soglia di qualcosa che non succederà, almeno nell’accezione più comune del verbo. In realtà però, in luoghi più intimi, nonostante la monumentalità dell’intervento di Nelson, qualcosa succede ed è qualcosa di forte e profondo, sedimentato dentro di noi come le macerie, che portano in sé il ricordo degli edifici o delle strutture che erano state nel passato. In un gioco circolare tra il conosciuto e l’ignoto, tra la freccia del tempo e la sua negazione, che sembra essere una delle possibili strade per avvicinarsi all’enigmatica installazione.