David Foster Wallace, dieci anni dopo: che cosa resta di noi

Una lezione strana, invecchiata eppure ancora così brillante

SET 11, 2018 -

Milano, 11 set. (askanews) – Sono passati 10 anni da quel 12 settembre 2008 in cui David Foster Wallace, in quel momento senza dubbio uno dei più importanti scrittori americani, si è impiccato nella sua casa di Claremont, in California. “L’epilogo che ha scelto”, ha scritto con grande tatto il biografo D.T. Max nel suo “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”. L’epilogo che è stato, aggiungiamo noi, fedeli alla legge che, per quanto ne sappiamo, le cose possono accadere in un modo solo, da cui, diceva Milan Kundera, “l’insostenibile leggerezza dell’essere” (grazie al proverbio tedesco che “una sola volta è nessuna volta”). La parola leggerezza, dopo una lunga serie di anniversari parziali, celebrati a volte in modo grandioso, a volte con meno efficacia, è quella che può suggellare questo decennale, paradossalmente calando proprio una pietra pesante sul racconto della modalità della morte di Wallace, sulla sua spesso disperata vicenda clinica, sulla morbosità che, anche in buona fede, ha ruotato intorno al “caso DFW”. Adesso basta, è stato tutto detto, tutto scritto, tutto sezionato. Leggerezza, guardando a quello che resta dei suoi libri, con affetto, ma anche senza paura di turbare un mostro sacro dicendo, per esempio, che alcune delle sue cose sono invecchiate in fretta, pur senza che ciò scalfisca l’ammirazione, l’affetto, perfino la devozione, se volete. Ma in questo decennio segnato dalla crisi e dall’avvento di un modo diverso di concepire le relazioni tra le persone – ogni riferimento a Zuckerberg e soci è voluto – molto è cambiato, compreso il modo di pensare la letteratura. E David questi dieci anni non li ha visti.

Wallace era un genio, un genio triste probabilmente e, forse meglio, un genio strambo. Con quel look problematico (la bandana, il sudore) e una mole corporea che possiamo immaginare dargli disagio, oggi ci sembra lontanissimo, e il rischio di farne una macchietta (o un santino, è uguale) è perfino più alto di quello di continuare a rileggere ogni sua pagina alla luce del suicidio, come un annuncio. Potrebbe anche essere, in diversi casi, ma non importa, perché la letteratura si occupa di altro, per dirla con David, di “che cosa significa essere un cazzo di essere umano”. Il generale contro il particolare; il tentativo di parlare a molti contro una chiusura solipsistica; l’estetica contro la cronaca. Né santini né necrologi (tanto meno rapporti da improvvisati medici legali), dunque, ma libri, romanzi, reportage, racconti, saggi. Il David Foster Wallace che riguarda anche noi, come lettori dei suoi libri.

DFW ha rappresentato come autore il vertice di un certo tipo di postmoderno, il vertice di una ricerca linguistica sfacciata, di un tentativo di arrivare a una chiarezza di sguardo e a una evidenza che rendessero possibile, non solo, pure indimenticabile, anche un libro mai finito sull’ufficio delle Entrate di Peoria. Stiamo parlando de “Il re pallido”, il romanzo postumo di Wallace che resta, e come resta, a testimoniare un autore unico e, probabilmente, inarrivabile in certi ambiti. Il punto è che anche il postmoderno è rimasto schiacciato nell’ultima decade e benché Don DeLillo continui a essere il gigante che è, i suoi ultimi libri sono più evoluzioni di uno scrittore piuttosto che manifesti di qualcosa che non c’è più. Il contemporaneo, con tutte le sue forme alcune terribili (in un modo che, quello sì, David avrebbe probabilmente saputo raccontare alla grandissima), ha ingoiato il moderno e il modernismo e il post modernismo che, alla fine, è il culmine stesso del movimento a cui è nato in opposizione. E Wallace, volenti o nolenti, non è più così nostro estremo contemporaneo come ci era apparso durante gli anni Novanta del XX secolo. Per questo anche “Infinite Jest”, che è un capolavoro, lo è oggi in modo un po’ meno evidente. Per questo alcuni racconti “troppo DFW” sembrano troppo e basta. “Zeitgeist”, direbbe con un po’ di spocchia, ma senza avere torto, un intellettuale in giacca di velluto e camicia alla coreana, lo spirito dei tempi. Questo è, questo capita. Anche a un grandissimo scrittore.

Però ci sono pagine che ancora adesso hanno un’evidenza che non è quella del troppo citato discorso agli studenti noto come “Questa è l’acqua”, speech memorabile, ma spesso usato come metafora di “tutto Wallace”, cosa che, come ha dimostrato anche l’amico Jonathan Franzen, semplicemente è falsa: David non era solo quel saggio umanista, per fortuna. Ma è la chiarezza tagliente dei suoi pezzi “giornalistici”, sul tennis o sulla crociera di “Una cosa divertente che non farò mai più”, quella sì foriera di un modo di scrivere che dopo di lui è stato sempre più cercato da altri autori, a contare ancora tantissimo. Insomma, oggi continuiamo a copiare il suo stile di non fiction, mentre un racconto pure struggente e misterioso come “John Billy” non lo copia più nessuno. Ed è giusto e normale che sia così. Questa, ci sentiamo di scrivere oggi, è la lezione di David Foster Wallace che resta più forte, il suo “dono difficile” come ha scritto Zadie Smith a proposito di un altro libro assolutamente straordinario, lontanissimo e ancora adesso difficile da classificare, come le “Brevi interviste con uomini schifosi”. Anch’esso però con qualche, piccola ma reale, ombra del tempo passato. Sapere distinguere queste ombre, e conviverci ed esserne consapevoli: eccola, forse, la lezione.

Quindi: alla domanda su cosa resta di DFW, in questo decennale dolente e affettuoso, la risposta che possiamo dare ha qualcosa di lapalissiano: restiamo noi. Nel senso dei suoi lettori laici, ma anche, e questo conta di più, nel senso di quanto di noi lui è riuscito a raccontare in modo così preciso da sembrare quasi impossibile, pur da quella “isola più lontana” dove viveva Wallace, che poi è (metaforicamente) la stessa dove Franzen è andato a gettare (realmente) le ceneri dell’amico-rivale. Quelle ceneri siamo anche noi, dispersi nell’oceano sempre in mutamento del presente che, quotidianamente, non riusciamo a conoscere mai davvero. Non ce l’ha fatta neppure David, ma in sua compagnia provarci sembra meno difficile.