Le contraddizioni e il fioretto: la Biennale dopo la Biennale

Baratta: no conformismi e già detti, qui palestra di scherma

NOV 28, 2017 -

Venezia, 28 nov. (askanews) – Quando si chiude un evento come la Biennale d’arte di Venezia è inevitabile porsi delle domande su ciò che rimane dopo quei lunghi sei mesi nei quali si sono sedimentati – tra l’Arsenale, i Giardini e sempre più spazi cittadini – oltre che i lavori degli artisti anche le innumerevoli e diverse reazioni del pubblico. Una volta fatto il bilancio – i numeri (ottimi), le sfumature (interessanti) e i propositi (sempre necessari) – resta però un’esigenza più profonda, una domanda più intensa che riguarda, per forza, la relazione tra noi e la Biennale, tra il pubblico sempre più ampio dell’arte contemporanea e una istituzione ultracentenaria che continua a porsi come avanguardia.

C’è chi potrebbe trovare in questo accostamento una contraddizione, chi potrebbe spendere osservazioni qualunquiste (sempre molto diffuse). Ma si potrebbe anche dire che questa apparente contraddizione tra la magnificenza della Biennale, che come un Doge moderno porta il Leone veneziano nel suo simbolo, e la necessaria provvisorietà di ogni suo passo in avanti attraverso il campo minato del contemporaneo sia esattamente ciò che fa la forza di questa istituzione e la garanzia del suo costante tentativo di rinnovarsi, anche dopo un nuovo record di visitatori, come quello registrato nel 2017.

Ecco allora che, in questa prospettiva, prendono ancora più senso alcuni concetti espressi dal presidente Paolo Baratta durante l’incontro finale con la stampa. “Se il visitatore – ha spiegato – nei confronti dell’arte non sviluppa una capacità di scherma di fronte a tutto quello che è il conformismo, il già detto, il già detto pro e il già detto contro, le cose sentite eccetera eccetera, non ci soddisfa. Noi vogliamo essere appunto anche una palestra di scherma e di fioretto”.

Quando un personaggio come Baratta, che ha anche un rilevante ruolo politico, rifiuta posizioni di rendita conformistica qualcosa si muove, qualcosa si confonde nella lettura più scontata e si capisce che qui lo spirito – bello o brutto che sia – dell’arte contemporanea ha permeato anche i modi di pensare e di essere. A costo di risultare quasi sgradevole nel rifiutare le etichette, come quella che la Biennale di Christine Macel, arrivata dopo quella sull’Età dell’Ansia, sia stata una risposta di ottimismo.

“Rifuggo dall’idea dell’ottimismo – ha spiegato Baratta – perché l’ottimismo è un modo di essere nella volontà, e quindi l’artista è avulso dall’essere pessimista o ottimista. L’artista credo sia semplicemente tormentato dalla necessità di realizzare qualcosa di significativo”.

Le Biennali possono sembrare più o meno riuscite, la Mostra può piacere o no, i padiglioni sono sempre esposti alle opinioni più varie, con la loro legittimità. Non importa. Importa però il metodo, che rimane; importa il desiderio di andare ancora più vicino, il tentativo di dare una forma, provvisoria quanto volete, al presente. E questo continua a succedere. In molti modi, chiamando lo spettatore a difendersi con il fioretto e in alcuni casi anche con tutta la sua energia. Ma che succeda è forse la migliore definizione che oggi possiamo dare del modo di stare di fronte, e dentro, quella cosa che chiamiamo arte contemporanea.