Milano, 19 ago. (askanews) – Chiude domenica 20 agosto, alla Triennale di Milano, “La Terra inquieta”, la mostra curata da Massimiliano Gioni per la Fondazione Nicola Trussardi e dedicata al tema delle migrazioni. Che fosse un’esposizione importante, che fosse un modo per mettere il dito nella piaga di una questione scottante del nostro presente è stato chiaro fin da subito. Ma forse meno immediata è stata invece la percezione della “bellezza” della mostra, e scriviamo questa parola tra virgolette, perchè sia chiaro che si vuole intendere un concetto forte – e anche politico, se vi piace – che va oltre la mera sfera estetica. Significativo in questo senso è il lavoro di Isaac Julien, “Western Union: Small Boats”, una installazione video dedicata alle piccole imbarcazioni che i migranti africani usano per tentare di attraversare il Mediterraneo, quel Mare Nostrum che, al secondo piano della mostra, Runo Lagomarsino trasforma, a intermittenza, in Mare Mostrum. Ma Julien fa qualcosa in più, ossia mette in scena la vita di queste persone utilizzando dei ballerini, capaci di dare ai gesti una consapevolezza, una ricchezza e, per l’appunto, una bellezza, che cambia completamente la prospettiva tipica del notiziario o del documentario. E allora, entrando dentro questo meccanismo mentale, che è complesso, scivoloso, tutt’altro che scontato, si capiscono molto meglio le parole che Gioni aveva usato all’inaugurazione della mostra, definendola un modo per arrivare a un “nuovo documentario sentimentale o un nuovo reportage lirico”.
Ci riesce Isaac Julien, al dare una forma alla definizione del curatore, ci riesce, come sempre in modo magnetico, anche John Akomfrah, altro regista che usa schermi multipli, in questo caso per spalancare un “Vertigo Sea”, un mare da vertigine, nel quale si incrociano Moby Dick e la tratta degli schiavi, la bellezza (ancora questa parola, che sembrava non dovesse più avere cittadinanza nel mondo dell’arte contemporanea, averla riportata in auge in questo modo e parlando di questo argomento è probabilmente il risultato più importante della mostra in Triennale) e l’orrore. Anche se alla fine ciò che resta è proprio il mare, con la sua sublime infinità e i suoi abissi terribili e meravigliosi.
La mostra milanese, che Beatrice Trussardi ha definito “necessaria” – a dimostrazione di come la Fondazione che lei presiede sia capace di pensare il presente con schemi mentali liquidi, ma con manifestazioni molto forti e concrete (era l’estate del 2015 quando a Palazzo Reale sempre Gioni inaugurava una mostra difficile e splendida come “La Grande Madre”, che ancora oggi non abbiamo capito fino in fondo) -, naturalmente documenta la realtà e molto spesso la tragedia della migrazione contemporanea. Ma aggiunge qualcosa in più, aggiunge una riflessione “neutra”, se così si può dire, ossia una riflessione che non dà un giudizio, ma semplicemente amplia il contesto, allarga lo sguardo, offre una lettura più articolata. E quando Francis Alys manda in mare i bambini di Tangeri e di Tarifa – le due città che si guardano separate dallo stretto di Gibilterra – con imbarcazioni giocattolo fatte con le calzature, capiamo contemporaneamente e senza soluzione di continuità sia la tragedia sia la dolcezza. La partita si gioca qui, nel cercare di rifiutare gli stereotipi e nel coraggio di spingersi ancora un po’ più in là.
“La Terra inquieta”, in questo suo ultimo weekend, ci guarda quindi come una sfida. Perché a salire sulla scaletta senza aereo del lavoro iconico di Adrian Paci “Centro di permanenza temporanea” sono dei poveri migranti, certo, ma l’aeroporto in cui questo accade è il nostro mondo, non un altro. L’unico che abbiamo, bellissimo e intollerabile.