Ritornare alla Biennale: un’arte che resta viva oltre gli oggetti

Cronache da Venezia a metà evento: un tentativo di non-bilancio

AGO 7, 2017 -

Venezia, 7 ago. (askanews) – Ritornare a visitare la Biennale d’arte di Venezia nel pieno dell’estate, abbagliati da una luce talmente perfetta da sembrare l’ennesimo trucco di una città che in alcune zone sembra il più incredibile parco a tema del mondo (mentre in altre è chiaramente la più bella e malinconica del mondo), è un’esperienza utile per porsi alcune domande. Prima fra tutte quella su quanto tempo occorra per capire davvero la portata di un evento artistico di tale ampiezza. La risposta precisa, ovviamente, non la troveremo neppure nel caldo di questo agosto, ma la sensazione è che una presa di distanza dalla magnifica follia dei giorni della preview e un più lento sfinimento attraverso i ritorni e le peregrinazioni, attraverso un’esperienza che – come ha scritto Sarah Thornton, brillante osservatrice del contemporaneo – ha a che fare con l’essere all’interno di qualcosa, piuttosto che con il guardare a qualcosa, sia utile e sia parte della stessa idea di fondo della Biennale. In questo senso è significativo ripartire dall’Arsenale, dai suoi muri consumati dal tempo e dal mare, dalla sua perfetta e immutabile decadenza perpetua, per mollare gli ormeggi ideologici o culturali e perdersi, ancora, all’interno di un evento che – bello o brutto che lo si possa giudicare – mantiene, e forse oggi amplifica, elementi di sconfinatezza, tanto sconsiderata (e ogni curatore poi ricorda il delirio assoluto dell’impresa) quanto costantemente affascinante.

L’Arsenale, si diceva, dove si viene accolti con calore dalle strutture di legno colorato di Rasheed Araeen, che lo spettatore è invitato a spostare, componendo la propria opera da Biennale (elemento da non trascurare, pur un pubblico del mondo dell’arte che spesso vive di piccoli narcisismi di questa natura). Ma superata la soglia dell’ingresso che, per quanto ci si faccia l’abitudine resta comunque un confine che implica sia incertezza sia desiderio di scoperta, ripercorrere questa parte della mostra “Viva Arte Viva” di Christine Macel è per certi versi necessario, ora che il clamore si è attenuato, per rendersi conto tanto di come la curatrice francese abbia scelto davvero moltissimi “nomi nuovi” (almeno per il pubblico più vasto) quanto del fatto che, senza troppi ammiccamenti all’estetica, ciò che rimane attaccato all’esperienza di visita oggi è la sensazione che effettivamente ci sia vita in queste sale, ci sia un’idea di arte che senza troppi proclami fa qualcosa e mette in circolo delle vere sensazioni (e perfino una scultura che si potrebbe definire tendente al pacchiano come quella della coreana Yee Sookyung prende una luce diversa, più importante e singolare).

Queste sensazioni, naturalmente, ruotano intorno a dei poli magnetici che appaiono i consolidati fulcri dell’esposizione e che noi identifichiamo nella tenda sacrale di Ernesto Neto, luogo che mette in discussione molte cose e molte posture, compresa la nostra di cronisti del sistema dell’arte, ma anche nella triplice proiezione “Traces” della turca Nevin Alagad, film che parla del tempo, oltre che di suoni, e infine nella polvere in movimento di “One Thousand and One Night” di Edith Dekyndt, un lavoro che unisce alla perfezione l’inutilità e la necessità. Tutto ciò compone qualcosa che prende senso e che armonizza l’esperienza complessa dell’Arsenale, che passa pure per il grande cavallo di Claudia Fontes del padiglione dell’Argentina e culmina, non solo a livello di percorso geografico, nel Padiglione Italia di Cecilia Alemani. Inutile spendere troppe parole: intorno alla metà del periodo della Biennale (la cui lunghezza quasi assurda è segretamente un invito a guardare – e a vivere – meglio l’evento, è un modo, come dice sempre il presidente Baratta, per farci riflettere sul nostro desiderio) il lavoro di Giorgio Andreotta Calò appare ancora più sorprendente del primo giorno, il suo specchio d’acqua e d’architettura è ancora più immobile, ancora più vivo, per restare nel terreno scelto da Christine Macel. La Stella Polare di questa 57esima Biennale d’arte resta qui, su quelle scale instabili e poco illuminate che guardano verso l’impossibile.

Ai Giardini l’atmosfera, anche nella canicola, appare meno complessa, più riconoscibile: nella mostra internazionale c’è il workshop di Olafur Eliasson, c’è l’adorabile cattiveria di Kiki Smith, c’è un nume tutelare come Philippe Parreno, seppure qui con un lavoro meno eclatante del solito. Ci sono i padiglioni nazionali di Francia e Gran Bretagna che dialogano nella distanza tra le masse e il suono, c’è la consapevolezza intima e politica di Mark Bradford per gli Stati Uniti e, ovviamente c’è la Croce del Sud (se Andreotta Calò era la Stella Polare) rappresentata dal pazzesco progetto di Anne Imhof per il padiglione tedesco. Inutile ritornarci: il Leone d’Oro per le partecipazioni nazionali era giusto che arrivasse qui, oggi più che mai, perché la vitalità di questa fotografia complessiva del mondo dell’arte che la Biennale prova ogni volta a scattare – parziale quanto volete, ma vasta, molto vasta – non può prescindere da un approccio scomodo, difficile e doloroso come quello della Imhof. Che guardato nel pieno di un’estate veneziana diventa ancora più necessario e chiarificatore, come se fosse una manifestazione del giudizio sintetico a priori del filosofo Immanuel Kant, ossia di quella forma di verità che non ha un oggetto, ma solo una struttura.

Tornare alla Biennale serve anche a questo – oltre che a compiere una azione, quella del ritorno, che è pregnante in sé, a prescindere – ossia a capire come la forza di un evento, e per traslato la forza di una contemporaneità (senza nascondersi alcuni limiti, come per esempio quelli di una geopolitica dei padiglioni che, diceva sempre Sarah Thornton, sembra ferma al 1948) stia proprio nel riuscire ad affermare, pur senza un oggetto specifico per questa affermazione. Se ci pensate, in questa opportunità c’è anche il senso di una libertà radicale. Viva.