Realtà e finzione, rappresentazione e arte secondo Iñárritu

In Fondazione Prada a Milano l'installazione "Carne Y Arena"

GIU 9, 2017 -

Milano, 9 giu. (askanews) – Fare esperienza dell’arte contemporanea comporta spesso una domanda di fondo, che rimane nella mente dello spettatore e che possiamo, semplificando, riassumere con il dubbio, ex post, su “cosa” si sia effettivamente visto. Nel caso dell’installazione del regista messicano Alejandro González Iñárritu “Carne y Arena”, alla Fondazione Prada a Milano, la domanda si arricchisce di un ulteriore tassello, ossia il “come” si sia visto quello che si è appena visto.

Perché il lavoro di Iñárritu ha a che fare con la realtà virtuale – ma intorno c’è molto, molto altro – e con la stessa modalità con cui allo spettatore è possibile accedere all’opera. Come è stato ampiamente raccontato, l’esperienza principale che viene ricreata virtualmente, ma con alcuni decisivi elementi tutt’altro che virtuali, è quella del confine tra Messico e Stati Uniti in un’alba fredda dalla quale spuntano prima un gruppo di migranti e poi la polizia di frontiera, con fucili automatici, cani, furgoni ed elicotteri. Un mondo a sé, che siamo abituati a pensare come lontanissimo da noi, ma nel quale ora possiamo immergerci completamente, con tutto l’esborso emotivo – di paura, compassione (nel senso etimologico di soffrire insieme), rabbia e sconforto – che questo comporta. Ma anche con la disturbante sensazione – che resta in secondo piano durante la sessione vera e propria, ma poi emerge pian piano – di avere comunque vissuto anche qualcosa di tecnologicamente e visivamente straordinario.

Il molto altro che ruota intorno ai 6’30” di dislocazione geotemporale è però forse la parte più pregnante dell’installazione, perché va a colpire il visitatore nei momenti della sua maggiore fragilità, ossia prima e dopo l’esperienza: rispettivamente quando ancora non si sa dove si sia capitati e cosa potrebbe succederci dopo essere stati a lungo seduti da soli e scalzi su una panchina attendendo un via libera che, viene da pensare, potrebbe anche non arrivare, e poi quando si pensa di avere concluso il viaggio ravvicinato nella sofferenza altrui mentre invece le storie che abbiamo appena sfiorato tornano e ci parlano di loro, costringendoci ad associare delle persone, delle vite concrete, a quei volti e a quei corpi che abbiamo visto poco prima attraverso i visori ad alta tecnologia.

Gli attori di Iñárritu, infatti, sono reali immigrati chiamati, in un certo senso come accadeva in quel romanzo straordinario (e poco letto, ahinoi) di Tom McCarthy che è “Deja-vù”, ma anche in uno dei luoghi kafkiani per eccellenza come il Teatro Naturale dell’Oklahoma, a rimettere in scena la propria vita, in questo caso anche con gli stessi vestiti. E queste persone reali, nell’ultima sala dell’installazione, raccontano tutto, nel bene e nel male. Ve lo diciamo, a scanso di equivoci: le storie sono al limite del tollerabile, ma la speranza non è assente, così come anche delle felicità. Come sempre il punto è a quale prezzo, ma questo lo giudicherà ognuno dei visitatori che, c’è da scommettere, affolleranno il calendario di prenotazioni allestito dalla Fondazione Prada.

Una delle caratteristiche della migliore arte contemporanea, come ci ricorda sempre anche il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, sta nel creare “una dilatazione” dello spazio mentale in cui si viene proiettati grazie alle opere. In questo caso la dilatazione è anche – seppur solo nel campo del virtuale – fisica, e chi la vive la percepisce come reale. Per questo sarebbe interessante, ai fini di una più completa comprensione dell’opera e del suo impatto, tenere traccia delle reazioni che ogni singolo visitatore manifesta durante l’azione, per dare una forma in qualche modo catalogabile a qualcosa che, invece, viene vissuto su un confine – non solo geografico – tra due mondi e tra le dimensioni della visione e della partecipazione, ma sempre con la freccia del movimento rivolta verso l’interno, verso l’ampio e affascinante terreno dell’indicibile.

Un’ultima considerazione: per poter vivere l’esperienza virtuale di “Carne y Arena” due assistenti molto professionali dotano il visitatore di zaino, cuffie e maschera-visore. Visti dall’esterno si assomiglia a personaggi umanoidi della fantascienza classica, oppure a cyborg sopravvissuti a qualche catastrofe globale. Eppure, in queste vesti post umane o ultra umane, allo spettatore viene offerta un’esperienza estrema dell’umano, della condizione umana, in un contesto che viene percepito come di “realtà”, benché ci si trovi invece al massimo punto della finzione, e gli occhi delle assistenti, dal loro spazio di osservazione esterno, stanno lì a testimoniarlo.

Qui, esattamente qui, l’opera di Iñárritu gioca una partita di senso, una partita semantica nel senso più profondo, che regala risultati di indubbio valore.