La Vita e la Biennale: il senso di un’esperienza (e i Baustelle)

Un tentativo di raccontare qualcosa che non si può raccontare?

MAG 29, 2017 -

Milano, 29 mag. (askanews) – Ascoltare i Baustelle e la loro canzone “La vita” per provare a definire che cos’è la nostra vita all’interno di quell’inestricabile rito globale che è la Biennale d’arte di Venezia, ripensando in particolare a quel “non-tempo” – per parafrasare Marc Augé – che sono i pazzeschi e indefinibili giorni della preview dell’evento d’arte contemporanea che ancora vogliamo definire il più importante al mondo. E che ogni due anni si riveste di una sensazione di necessità che, in sé, al di là dei contenuti, costruisce quell’aura o, se preferite, quella “possibilità di senso” che appare, nella sua indefinitezza, nella sua sensualità (e corredata dalla malinconia tipica della Laguna) la cifra più importante di tutto l’evento.

“Noi siamo qui a vedere il momento in cui la vitalità degli artisti dona all’umanità un pensiero, una riflessione, una dilatazione. E questo la Biennale deve essere e in un certo senso deve essere. E in un certo senso il tema della mostra s’addice anche all’istituzione che questa mostra promuove”. Il presidente della Biennale, Paolo Baratta, già dalla conferenza stampa di presentazione della 57esima edizione, ha provato a tratteggiare i confini dello spazio in cui ci si muove, tra una quantità di stimoli che una singola persona non può gestire nell’arco di soli quattro giorni e i chilometri a piedi che occorre continuare a percorrere inseguendo almeno una vaga idea di ciò che questi stimoli possono rappresentare per la nostra vita. Ma qui, ancora una volta, l’interpretazione – arbitraria naturalmente – possiamo lasciarla ai Baustelle, con il loro brano “Betty”: “Che cos’è la vita senza una dose di qualcosa, una dipendenza”.

Così, se ammettiamo l’idea di dipendenza, possiamo forse accettare con meno disagio le molte cose che, necessariamente, non avremo capito – e forse non capiremo mai – ma che hanno comunque lasciato un segno, da qualche parte dentro il contenitore che chiamiamo “esperienza”, mentre, per esempio, attraversavamo gli spazi dell’Arsenale andando sulle tracce di quella “Arte Viva” che la curatrice della mostra internazionale Christine Macel ha provato a rappresentare. Oppure osservando il corpo di Anne Imhof, premiata con il Leone d’Oro, durante gli affollatissimi momenti di performance nel padiglione della Germania.

La vita è bella, canta la band milanese sfidando la consunzione di una affermazione che, alla Biennale, viene smentita oppure ribadita ogni 20 passi, sempre con una certa assertività. Eppure è qui, esattamente qui, che tutta la folla dei giorni di anteprima ha voluto essere, è qui che bisognava essere, è qui che, consentiteci lo slancio retorico, si può (ancora) essere una comunità. Probabilmente il segreto di tutto – un segreto nudo come il celebre imperatore vanesio della favola sui suoi vestiti nuovi – sta qui, nella convinzione collettiva che sia necessario esserci, perché sotto i rituali, sotto le stravaganze, sotto tutte quelle stranezze che fanno – ogni volta – il gioco di chi liquida la Biennale e l’arte contemporanea in generale come qualcosa di inutile e radical-chic, sotto tutto questo c’è qualcosa, c’è una risposta, c’è quel “senso” comunitario di cui si diceva sopra. Ma non credete a chi pretende di spiegarvelo, perché la sensazione è che sia diverso per ciascuno di noi. Diverso, difficile se volete, eppure sempre, comunque, bellissimo.

“La vita è tragica, la vita è stupida – recita il ritornello baustelliano – però è bellissima, essendo inutile. È solo immagine, un soprammobile, pensare che la vita non è niente aiuta a vivere”. Potremmo sostituire la parola “arte” o la parola “Biennale” alla parola “vita”, e poi potremmo vedere l’effetto che fa.