Biennale d’arte, la vertigine perfetta di Andreotta Calò

Incontro (memorabile) con uno degli artisti di Padiglione Italia

MAG 17, 2017 -

Milano, 17 mag. (askanews) – È stata una vertigine. Forse, ma non ci sono certezze, si potrebbe riassumere così l’esperienza dell’opera “Senza titolo (La fine del mondo)” che Giorgio Andreotta Calò ha concepito e realizzato per il Padiglione Italia alla 57esima Biennale d’arte di Venezia, nell’ambito del progetto “Il mondo magico”, curato da Cecilia Alemani. Un incontro, quello con il monumentale lavoro e con il suo creatore, che resta circonfuso di incertezza, che brilla in un’oscurità tanto necessaria quanto difficile da raccontare per interposta persona.

“È un grande paesaggio – ha raccontato l’artista ad askanews – è un ambiente che ti prende e che ti trascina dentro, è una visione a cui forse noi non siamo più abituati, per questo è sorprendente, perché ha una profondità, ha un tempo, ha una nitidezza, ha una sua realtà, per nel suo essere artefatta e il nostro occhio non è più abituato a dialogare con questo tipo di immagine. Quindi io spero che quello che ti coglie la sopra sia tale e quale a quello che poteva cogliere uno spettatore di fronte a un grande dipinto nel passato”.

Ma cosa vediamo davvero nell’ultima grande sala del Padiglione italiano, dentro una installazione che ricorda, per forza totalizzante, l’epocale lavoro “Double Bind” di Juan Munoz? Vediamo uno spazio inferiore organizzato intorno a dei ponteggi a cinque navate, vediamo tracce di luce e di un mondo marino sotterraneo, vediamo scale che conducono, attraversando la stretta porta che divide ciascuno dal proprio doppio, allo spazio superiore, dove ci si imbatte nella visione di un’architettura duplicata, oppure in un cancello verso l’infinito, o ancora in un riflesso acquatico delle potenzialità di un’arte così vasta da essere difficile da immaginare.

Scegliete voi. Quello che sappiamo dal racconto di Andreotta Calò è che il lavoro è nato tra L’Aquila e Amatrice nei giorni del terremoto. Sappiamo che, per lui veneziano, l’opera ha comunque a che fare con la dimensione lagunare della sua città e che ha lavorato sul sito espositivo per oltre un anno. Ma le certezze, se così le vogliamo chiamare, si fermano qui.

“In un anno di tempo – ha aggiunto l’artista – l’opera si trasforma, si modifica, vive, si stacca da te e ne riesci a gestire il controllo solo fino a un certo punto, dopo diventa un’entità a sé stante e un po’ è successo questo”.

Consapevoli del fatto che in una preview, per quanto ampia, è assolutamente impossibile vedere tutto di un oggetto artistico come la Biennale di Venezia, ci prendiamo comunque il rischio, da cronisti, di registrare un pensiero che da più parti ci è capitato di sentire, trovandolo pertinente: l’opera di Andreotta Calò è la cosa più bella di tutta la Biennale. Ma la riposta a questa impossibile (e forse inutile) domanda cambierà per ognuno delle migliaia di visitatori della Biennale, come è giusto che sia.

“D’altra parte l’arte non è democratica, è elitaria – ha concluso Giorgio Andreotta Calò – ma elitario non significa più ricco o più povero, è una questione di sensibilità e di capacità di aprirsi e di accettarla, di accoglierla”.

È stata una vertigine, dicevamo. E forse colpisce così tanto perché la vita, in fondo, è sempre una vertigine.