Artrite reumatoide più severa in donne: questione di genere ma non solo

Esperti del Collegio Reumatologi a Congresso nazionale

OTT 29, 2020 -

Roma, 29 ott. (askanews) – Solo in Italia sono oltre 400 mila le persone affette da artrite reumatoide. Una malattia reumatica che colpisce 1 persona ogni 250 abitanti, con un’incidenza di 2-4 nuovi casi per anno su 10.000 individui. Si tratta di una patologia infiammatoria autoimmune, cronica, altamente invalidante e a carattere sistemico. Tra i sintomi più frequenti ci sono: rigidità mattutina prolungata, dolore, tumefazione articolare e deformità articolari tali da poter comportare la progressiva perdita delle proprie capacità funzionali, compromettendo la qualità della vita del paziente in tutti gli ambiti.

«Fra le artriti croniche, l’artrite reumatoide sembra clinicamente più severa nelle donne, le quali mostrano un’attività di malattia basale più elevata, un andamento più aggressivo ed una maggiore disabilità, associate a basse percentuali di remissione della malattia. Sono proprio le donne a essere più colpite, in un rapporto di 4 a 1 rispetto agli uomini, ed in particolare durante il periodo fertile», dichiara Patrizia Amato, Reumatologa dell’ASL Salerno, Consigliere Nazionale CReI- il Collegio dei Reumatologi, «nonostante l’artrite reumatoide sia cosi frequente nelle donne la terapia a loro riservata è invece adattata al genere maschile. Da sempre, la medicina utilizza come stereotipo per i trial clinici un soggetto maschile di 70 kg, questo perché studiare la condizione clinica di una donna comporta costi più elevati e modalità più complesse. Cosa comporta però tutto questo? Ovviamente un aumento degli effetti collaterali da parte di donne affette da questa malattia autoimmune. Un problema che non troverà una soluzione fintanto che non si comprenderà che le malattie reumatiche sono clinicamente diverse tra donne e uomini e, di conseguenza, necessitano di un differente approccio clinico e terapeutico – continua la dottoressa Amato – così come differente è anche la gestione dell’accettazione della malattia, da una parte le donne, che la accettano con maggior facilità, dall’altra gli uomini, che impiegano più tempo e nella maggior parte dei casi la rifiutano, banalizzando la loro condizione. Proprio per questo, mi sento di dire che l’uomo è colui che ha bisogno di essere più ascoltato e di ricevere un maggior supporto, sia fisico che psicologico. Il pericolo che ne consegue è la possibile perdita di aderenza alla terapia. Per tutte queste ragioni, sia cliniche che psicologiche, un approccio più orientato al genere, con strategie terapeutiche dedicate rappresenterebbe l’arma vincente per una maggiore appropriatezza terapeutica, efficacia, sicurezza e aderenza terapeutica». (segue)