Il concettuale di massa, addio all’impacchettatore Christo

Costruì monumenti temporanei nell'immaginario collettivo

GIU 1, 2020 -

Milano, 1 giu. (askanews) – Opere che volevano lasciare “un segno monumentale e su vasta scala”, per usare le parole di Germano Celant, ma che avevano, nella loro stessa natura, una irrinunciabile componente effimera, che forse resta la caratteristica più importante del lavoro di Christo, l’artista bulgaro-americano morto il 31 maggio a 84 anni, poche settimane dopo il critico italiano che lo aveva accompagnato nella straordinaria avventura di “The Floating Piers” su lago d’Iseo nel 2016.

Nato nel 1935, Christo Yavachev è diventato, in qualche modo, se stesso a Parigi, dove ha conosciuto la futura moglie e partner di lavoro Jeanne-Claude Denat de Guillebon: insieme, nel corso degli anni, sono diventati figure di riferimento per quegli artisti che intervenivano direttamente sullo spazio e sulla percezione del luogo. Tecnicamente si parla di Land Art, ma forse Christo e Jeanne-Claude restano più refrattari alle definizioni chiuse, benché le loro opere più celebri fossero proprio gli impacchettamenti monumentali.

E oggi che Christo se ne è andato, 11 anni dopo la moglie, che ha comunque co-firmato i lavori fino al 2020, può essere l’occasione per tornare metaforicamente a sfogliare il libro della loro carriera, individuando alcuni momenti nodali. Prima però è giusto ricordare quello che l’artista ci disse nel 2016 in Triennale, parlando dei “Water Projects”.

“Tutti questi progetti – ci aveva raccontato con trasporto, quasi rabbioso – sono fisici, il che significa che ci sono chilometri di spazio nei quali devi camminare, dei luoghi in cui devi stare: non è qualcosa da guardare, ma un posto nel quale muoverti. E’ tutto fisico, reale, non è cinema, sono cose vere: il vento, il sole, il tempo che devi trascorrerci. E questa è la parte più importante di tutti i nostri progetti”.

E allora, sfogliando la storia dei lavori, possiamo scegliere di partire dall’impacchettamento parigino del Pont Neuf, datato ufficialmente 1985, ma nato, come progetto, 10 anni prima. Un intervento che agiva direttamente sull’immaginario paesaggistico della capitale francese, cambiando l’immagine mentale dei visitatori. Lo stesso accadeva, nel 1995 (ma la data di inizio ufficiale è il 1971), con quello che forse resta il lavoro più forte e celebre, anche perché connotato da potenti rimandi politici e storici: il Reichstag di Berlino, completamente avvolto da stoffa e cavi. Un’impresa che è diventata mainstream, un’arte contemporanea e concettuale che però ha saputo parlare a un pubblico vastissimo. Anche questa è stata una caratteristica del lavoro di Christo e Jeanne-Claude e, va detto, è stato pure un aspetto che ha fatto storcere il naso ad alcuni benpensanti del sistema dell’arte, come è accaduto anche per la passerella arancione sul lago d’Iseo, che ha avuto 1,2 milioni di visitatori. Forse troppi per chi continua a credere nella necessità di un elitarismo, novero nel quale non rientrava Celant.

“Sul piano della memoria visiva e fisica – ci aveva raccontato il professore in un’intervista-bilancio sui Floating Piers – è stata certamente una situazione che ha fatto partecipare persone che non sarebbero mai entrate in alcun museo e che hanno compiuto chilometri e chilometri di cammino, come in un grande pellegrinaggio verso l’arte. Quindi un grande risultato per il quale il Lago d’Iseo è diventato un santuario temporaneo”.

Santuario è una bella parola, soprattutto perché collegata all’aggettivo temporaneo: i progetti di Christo e Jeanne-Claude durano 14 giorni, poi svaniscono: restano alcune prove – i cavi, parti di stoffa, gli strumenti tecnici invisibili, come per esempio le boe di profondità di Iseo – e soprattutto i disegni, che diventano in un certo senso l’opera e dalla cui vendita l’artista ricavava i fondi da investire nei successivi progetti, autofinanziati. E pure questa era una caratteristica decisiva, indicativa del modo di Christo di stare nel Sistema, sempre a modo suo.

Ancora, prima di concludere, due immagini dal libro dei ricordi: gli atolli circondati da plastica fucsia a Biscane Bay, a Miami dei primi anni Ottanta e “The Gates” (1979-2005) a Central Park a New York. Sarà scontato, ma nel momento in cui si saluta l’artista è bello immaginarlo in qualche modo celebrato proprio da quegli stendardi arancioni, che erano fatti per accompagnare tutti noi in un luogo diverso, misterioso, pur partendo da una realtà che pensavamo di conoscere.

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